scritture mediterranee



Indice dei testi sotto riportati

   Ø   Assia Djebar: ritorno a Cesarea  di Aïcha Bouabaci, 2015
Ø      Islam e democrazia. I diritti delle donne tra precetti religiosi e paesi in transizione, di Ada Donno. Sta in: Donne, politica e istituzioni, Milella, Lecce 2007
  Ø   Donne di pace arabe ed ebree nel conflitto iasrelo-palestinese, di Ada Donno. Sta in: Per una libera aggiunta in più. Pratiche di donne tra femminismo e non violenza, a cura di Giovanna Providenti, Roma 2006
Ø      Donne israeliane e palestinesi contro la cultura della guerra, di Nava Elyashar. Sta in: l’ossimoro virtuoso, Awmr Italia 2005
Ø      Tra guerra e pace, quale uso della vita insegnare?, di Aicha Bouabaci. Sta in: L’ossimoro virtuoso, Awmr Italia 2005
Ø      L’Algeria: guerre, catastrofi e una pace che tarda a venire, di Aicha Bouabaci.  Sta in: L’ossimoro virtuoso, Awmr Italia 2005
>   UN FIORE PER LE DONNE DI KABUL di Ada Donno, sta in  Pietregiornale dei Comuni del Salento, marzo 1998.

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Assia Djebar: ritorno a Cesarea
di Aïcha Bouabaci

Una grande penna si è eclissata dal mondo della letteratura e dell'arte; una grande figura ci ha lasciati, venerdì 6 febbraio scorso a Parigi: una algerina di nome Assia Djebar.
Il suo vero nome Fatma-Zohra Imalayène, nata il 30 giugno 1936 a Cherchell - città costiera a 86 km da Algeri, la grande Cesarea, di cui sono originari dei berberi famosi come il re Giuba II  e, più vicino a noi, degli studiosi , teologi, medici, veterani della causa algerina.
Era figlia di un insegnante, Tahar Imalayène impegnato ben presto nella lotta contro la colonizzazione francese nel partito di Ferhat Abbas, l’UDMA - l'Unione democratica del Manifesto algerino - e il cui figlio Samir, che si era arruolato nelle fila dell’ELN (Esercito di Liberazione Nazionale), era stato arrestato e torturato dall'esercito francese.

Assia, pioniera perenne ...
Grazie alla lungimiranza del padre, aveva seguito un percorso scolastico esemplare sia in Algeria - nei migliori licei frequentati dai figli dei coloni -  che in Francia: prima il liceo Fenelon e Khâgne, nel 1954 e poi (una novità assoluta per un’algerina) la Scuola normale superiore di Sèvres nel 1955, da cui fu espulsa per giusta causa! Aveva preferito a quegli studi d’élite la lotta al fianco degli altri studenti algerini musulmani, contro la colonizzazione del paese da parte della Francia.
Due anni dopo, nel 1957, pubblica il suo primo romanzo La sete – per la somiglianza delle situazioni, il suo nome è stato associato a quello di Françoise Sagan - per le  edizioni Julliard. Esso segnava la sua vera nascita, come ha sottolineato il 22 giugno 2005, al momento del suo ingresso nell'Accademia di Francia, Pierre-Jean Rémy,  in risposta al suo discorso di accettazione: grazie a questo nome mutuato che non l’abbandonerà più, come non smetterà più di scrivere! [1]  
Assia Djebar non ha mai smesso, attraverso tutte le sue opere, poesie, romanzi, saggi, opere teatrali, sceneggiature per il grande o piccolo schermo, di essere la messaggera delle "voci sepolte", quelle delle donne, violentate dal sistema coloniale e dal patriarcato; voci silenziose, nel suo paese e altrove. Da Le Donne di Algeri nel loro appartamento fino a Donne di Medina ,  da Algeri a Parigi e nei paesi d’Arabia ...
L’ho sempre associata, nei seminari che ho tenuto in Germania, allo scrittore-regista senegalese Sembene Ousmane, autore fra l’altro dell'indimenticabile "Il mandato" che aveva portato sullo schermo.
Anche lei sarebbe stata una grande cineasta se non fosse stato per gli ostacoli che aveva incontrato in Algeria; si pensi, in particolare, ai suoi film preziosi: il lungometraggio  La Nouba delle donne del Monte Chenoua, realizzato per la televisione algerina nel 1977, dopo tre mesi di inchieste  effettuate tra le donne della sua regione, che ha conseguito nel 1979 il premio della critica internazionale alla Biennale di Venezia [2] . Questo primo film è stato seguito dal film documentario La Zerda o il canto dell’oblio (1977), premiato al Festival di Berlino e studiato, oggi, nella maggior parte delle università americane. Film della memoria. Donne di memoria, per la Memoria collettiva [3] !
Aveva anche lavorato all'adattamento cinematografico del romanzo autobiografico di Fadhma Ait Mansour Amrouche - la madre di Taos e Jean Amrouche -  Storia della mia vita, progetto collocato nel quadro dell'Anno dell'Algeria in Francia, ma che si era alla fine arenato, poiché i funzionari algerini si erano rimangiata la parola, quando il lavoro di Assia era già molto avanti!
Le competenze di Assia e la forza della sua creatività non si fermano qui! Aveva creato un dramma musicale in 5 atti e 21 quadri (estate 2000), a Roma, "Figlie di Ismaele, nel vento e la tempesta, tradotto da Maria Nadotti, ed interpretato dalla troupe di attori e attrici del Teatro di Roma. Assia ha anche scritto un dramma musicale in 3 atti, su richiesta del Teatro di Rotterdam, nei Paesi Bassi, "Aicha e le donne di Medina."

L'evoluzione della sua ispirazione, della sua tematica e della sua scrittura

Dopo un periodo di creazione intimista, dal suo primo romanzo La sete, passando per  Le impazienti, I bambini del Nuovo Mondo e le allodole ingenue, Assia Djebar ora iniziava un nuovo tipo di creazione in cui si combinavano  elementi autobiografici e storia collettiva.
E’ ciò che troviamo in "Le Donne di Algeri nel loro appartamento", che reca in copertina il famoso dipinto omonimo di Eugène Delacroix. Ecco cosa ho scritto sulla rivista letteraria Anamnésis, No. 0 (aprile-maggio-giugno 2014) [4] :
"A questa comunione dei due pittori - Delacroix e Picasso-  si è aggiunto il lavoro di scrittura intrapreso dalla nostra grande scrittrice e cineasta Assia Djebar, per  avviare un incontro tra pittura e scrittura e denunciare la reclusione e il silenzio di queste donne. Infatti, nel 1978, si era ispirata alle opere di Delacroix e di Picasso -  il quale da parte sua ha un approccio diverso: egli dipinge, esplora "la realtà invisibile, profonda ed essenziale" - per scrivere la sua raccolta di racconti intitolata anche "Le Donne di Algeri nel loro appartamento" – titolo che lei ha dato al racconto più lungo - per raccontare la storia delle donne di Algeri, prima, durante, e per tutta la durata della guerra di liberazione. Il suo obiettivo: far uscire quelle donne dal loro isolamento e dal silenzio, il silenzio che la pittura di Delacroix non rivela. Queste "bocche cucite" dell'Algeria e del mondo arabo hanno trovato in lei una forte sostenitrice che non ha esitato a risalire il corso della storia, rompere il confinamento e rendere la parola alle donne, e con ciò ripristinando la verità ...”.
"Donne di Algeri nel loro appartamento", sarà seguito da "L’amour, la Fantasia", "Ombra Sultana" e "Lontano da Medina" (che fa rivivere, con l’aiuto della fiction, le donne-faro all'avvento dell'Islam).
Come si vedrà, l'Algeria e l'Islam sono la sua fonte d’ispirazione e di riflessione.

La scrittura di Assia di fronte al violento, inumano “decennio nero” dell’ Algeria

Durante quel periodo, è tornata  in Algeria una sola volta, alla morte del padre.
Assia è scossa come tutti gli algerini dall'assassinio di migliaia di algerini, tra i quali  suoi amici, parenti, donne, vittime anonime o intellettuali e studiosi di alto livello, scrittori e artisti: il drammaturgo Abdelkader Alloula, suo ex cognato, figura tra le vittime che avrebbero dovuto normalmente prefigurare il futuro illuminato dell’Algeria.
I suoi romanzi si concatenano: "Vasta è la mia prigione [5] " , “Il bianco dell’Algeria ",  "Oran, lingua morta", "Le notti di Strasburgo". Era il momento delle azioni condotte dal Parlamento degli Scrittori, fondato e con sede a Strasburgo, molto impegnato nella tutela e l’accoglienza di scrittori minacciati, dopo la fatwa di morte contro Salman Rushdie, insieme con l’azione svolta dal CISIA (Comitato per la salvaguardia degli intellettuali algerini), istituito su iniziativa del compianto Pierre Bourdieu.  E infine il suo ultimo libro di quel periodo, il saggio "Le voci che mi assediano".

Ritorni ...
Poi, quelli che sono stati percepiti come i migliori testi autobiografici di Assia:  gli ultimi  tre romanzi, "La donna senza sepoltura" -  che  riguarda la sua amica d'infanzia Zoulikha Oudaï, combattente del FLN, di cui non si è più trovata traccia - "La scomparsa della lingua francese" e "In nessun posto  nella  casa di mio padre."

Nell’insieme, un lavoro denso, diversificato, autentico, ben temperato, che si annoda e si snoda, dove si urla e si scrive tutto ciò che riguarda l'animo umano, prima, durante e dopo, dove troviamo l'omaggio alla resistenza, l’emancipazione della donna, la ricerca di identità attraverso una costruzione di memoria lungamente ponderata, intelligente, sensibile, aiutata dalla sua formazione di storica. Assia ha avuto l'intuizione felice, mescolando nel suo lavoro narrativa, storie vere e pezzi della sua stessa storia, in uno stile apprezzato per la finezza ed eleganza e la qualità della narrazione.
Un altro elemento che rivela la sua natura peculiare, tanto è accattivante e convincente: ella ha esplorato il suo stesso percorso di scrittura per la sua tesi di dottorato sostenuta a Montpellier nel 1999: "Il romanzo magrebino francofono, tra le lingue e le culture: 40 anni di perorso: Assia Djebar 1957-1997 "!



Passaggi…
Io l’ho conosciuta nel 1990 ad Algeri, e poi dal 1994 l’ho incrociata regolarmente ogni ottobre, in quella immensa città che è la Fiera Internazionale del Libro di Francoforte, dove era regolarmente invitata. Ci incrociavamo: "Sei sempre lì? – mi domandava (sapeva della mia fragile situazione di esiliata involontaria). Ci scambiavamo  qualche parola prima che fosse chiamata ad intervenire. In una di queste occasioni, nell'ottobre del 2000, io avevo avuto il privilegio di essere invitata alla cerimonia di premiazione dei librai; ero lì con alcune personalità algerine e con la mia amica Fatima Mernissi: ero colpita  dalla presenza della famosa sociologa marocchina, venuta a testimoniare ad Assia  la sua stima e la sua considerazione da consorella.
Mentre lei usciva precipitosamente dalla grande sala della Paulskirche, con un importante seguito, noi dovemmo correre dietro il corteo, per abbracciarla, congratularci con lei, e nel mio caso personale, per dirle il mio orgoglio. Il fatto è che tutta quella gente doveva guadagnare il posto della Fiera dove doveva proseguire il grande evento. Assia Djebar era conosciuta e apprezzata in Germania: aveva già ricevuto il premio "Libératurpreis", assegnato ogni anno a margine delle attività della Fiera del Libro, nel 1989, per il suo libro "Ombra sultana".
Ricordo ancora, nel 2004, quando era stato scelto come ospite d'onore il Mondo arabo, i fremiti negli ampi corridoi dello stand internazionale in cui si tenevano i grandi incontri con ospiti di tutti i paesi: il momento cruciale dell’annuncio del premio Nobel per la letteratura era imminente e si sussurrava tra la più grande eccitazione: "Sarà tra Assia Djebar ed Elfriede  Jelinek”.  Fu la romanziera austriaca, infine, ad essere selezionata, con grande delusione dei molti ammiratori della scrittrice  algerina, proposta regolarmente per quel premio prestigioso.

Che palmarès edificante, il suo!

Le consacrazioni reclamano un'ammirazione senza riserve: sottolineano la diversità della sua opera e la sua universalità, il rispetto e l'ammirazione che ella ha suscitato e il riconoscimento espresso per la sua vita in tutto il mondo, in particolare in Italia, Germania, Belgio, Francia, Stati Uniti ...
Lo statuto d’immortale: Assia Djebar era stata eletta il 16 Giugno 2005 al quinto seggio dell’Accademia di Francia, che era stato di Georges Vedel [6]. Prima donna araba, prima donna maghrebina, dopo solo tre altre donne occidentali. Per sottolineare e segnalare il suo attaccamento alla culla dei suoi antenati, aveva voluto entrare in questa istituzione eminentemente francese accompagnata da una spada algerina risalente al XIX secolo, durante la resistenza guidata da Emir Abdelkader e prodotta nella fonderia  di quest’ultimo (informazione rivelata dallo scrittore Kamel Bouchama) [7]. Simbolo chiaramente eloquente!
Aveva conquistato il tempio dell’immortalità con la sua "scrittura francese", una lingua che per lei poggiava sulle sue due lingue madri, il berbero e l’arabo, e che  ha descritto con arte, con sensibilità e sincerità!  «Così, direi, si ravviva il mio "desiderio ardente di lingua ", una lingua in movimento, una lingua ritmata da me per dirmi, o per dire che non sapevo dirmi, se non  nella ferita ahimè, ... se non nello spiraglio fra due, no, fra tre lingue e in questo triangolo irregolare, su livelli di intensità o precisione differenti, trovare il mio centro di equilibrio o di campo dove poggiare la mia scrittura, stabilizzarla o rischiare al contrario il suo volo. [...] La lingua francese, divenuta la mia, almeno nella forma scritta, il francese dunque è luogo di scavo del mio lavoro, spazio della mia meditazione o del mio sogno, approdo della mia utopia forse, io direi anche: ritmo del mio respiro, di giorno in giorno. »
Anche nella conversazione con la compianta Josie Fanon (vedi la nota a pagina 2) si trovano chiarimenti dati da Assia Djebar sull'esistenza e il ruolo della lingua: « […] Mi è stato chiaro allora che c'è una lingua per esprimere i propri pensieri e un’altra per esprimere le emozioni. La lingua francese mi permette di esprimere i miei pensieri, mentre il berbero e arabo sono lo spazio delle emozioni e delle sensazioni ».
E’ evidente: Assia Djebar era una donna vera, in ascolto della sua profonda sensibilità verso il mondo e verso se stessa, in un mondo e un tempo divenuti stranamente tiranni. E’ per questo che il suo ultimo romanzo pubblicato, "In nessun posto in casa di mio padre" mi ha particolarmente commossa! Ho trovato in questo libro, come nelle prime righe di Assia Djebar, il padre: in primo luogo l'insegnante di arabo che accompagnava la figlia alla scuola francese, ignorando le tradizioni locali. E poi questo padre dalla reazione tanto temuta dalla ragazza che era diventata Assia, collegiale in un grande liceo di Algeri nel 1953, dal momento che la sua collera virile era esplosa per via delle sue gambe di ragazzina denudate! E "il fidanzato", che veniva ogni giorno e sostava sul marciapiede di fronte alla sua casa, per tutto il tempo della sua convalescenza...
Avevo sentito alla radio francese, all’epoca, che il suicidio di una giovane americana l’aveva fatta ritornare, in un momento di intensa emozione, indietro negli anni, al suo paese natale; ed aveva scritto quel racconto intimista che raccontava il tentativo di suicidio, "questo atto gratuito", nell’ottobre 1953, quando aveva 17 anni. Solo un anno prima dello scoppio della Rivoluzione. In quel libro  racconta di "quei secondi e quei minuti di buco che s’apriva... ed io oggi, di fronte a quel  vuoto, quel  falso dramma."

La morte, questo vuoto universale, immenso ed eterno!
Il suo corpo è arrivato ad Algeri mercoledì 12 febbraio; una cerimonia si è svolta presso l'aeroporto, poi la sua salma è stata esposta nel Palazzo della Cultura. Il suo funerale si è svolto il venerdì al cimitero di Cherchell dove aveva chiesto di riposare accanto al padre.
Era lo stesso desiderio ultimo espresso dall'attore e regista francese Roger Hanin (il suo vero nome era Levy, mentre Hannin era il cognome della madre.
Nel momento in cui gli spiriti s’infiammavano a Parigi, in seguito all'attentato contro la rivista satirica Charlie Hebdo, dove tutti rivendicavano il nome di Charlie, dove   l'Islam veniva stigmatizzato ancora una volta, perfino attraverso ragazzi convocati nei commissariati di polizia, in quello stesso momento Roger Hanin, figlio libero di Bab el Oued, ad Algeri, veniva sepolto accanto al padre nel cimitero ebraico di Bologhine, già Sant'Eugenio.
Quando a Parigi il primo ministro israeliano ha invitato gli ebrei di Francia a ritornare in terra d'Israele, [8] Roger Hanin, ebreo francese, aveva scelto silenziosamente, sovranamente di riposare nella terra dei suoi antenati, terra di musulmani, suoi fratelli, suoi amici, suoi ammiratori ... Alla vigilia di un venerdì, giorno consacrato nell'Islam. Un gesto, un evento ignorato dai media francesi, mentre in Algeria delle donne avevano lanciato il loro grido alla fine del funerale, come per Assia Djebar, perché in questo bel paese che è pur sempre l’Algeria, il sole vieta piangere!
Come nelle bellissime e drammatiche storie d'amore, un altra scomparsa è stata annunciata pochi giorni dopo: quella, il 17 febbraio mentre a Berlino, sua residenza di elezione, di Malek Alloula, poeta e scrittore, fratello del grande drammaturgo Abdelkader Alloula, assassinato nel 1994, ed ex-marito di Assia Djebar. La morte di questa grande signora dalla missione e dalle realizzazioni molteplici poteva davvero semplicemente andarsene?
Oggi spetta all’Algeria, che ella ha rappresentato in tutto il mondo con tanta eleganza nel suo sapere diversificato, e in 23 lingue, di farla conoscere al suo popolo nella lingua che era, con il berbero, la sua lingua madre: uno solo dei suoi libri, "In nessun posto in casa di mio padre," è stato tradotto in arabo dalle edizioni Sedia ad Algeri nel 2014.
Non c'è dubbio che sarà un’impresa estremamente interessante per il traduttore, tanto la scrittura di Assia Djebar reca il sigillo della poesia, delle metafore, dietro i suoni orali, della lingua del suo paese d’origine.
E’ un’urgenza, come riconosciuto ovunque in Algeria, installare la sua voce decisiva, portatrice di simboli, di parola feconda, di giustizia e libertà, nelle scuole e nelle università affinché resti intatta ed immortale.
Quanto alle donne, quelle d’Algeria e altrove che lei ha fatto uscire dall’ombra, possono dirle grazie attraverso le parole di un personaggio femminile del romanzo "Vasta  è la prigione" (1995, Albin Michel): « guardandoti, non lasciandoti, tutti noi, ti mostreremo la nostra solidarietà. Grazie a te, non siamo condannati. "
E tra i due significati del tuo nome, Assia Djebar, tra “consolazione” e “intransigenza”             (Pierre-Jean Rémy nel suo discorso di accettazione) noi, in Algeria, non ti dimenticheremo ...  Non ci consoleremo della tua scomparsa e saremo intransigenti verso la mediocrità, per evitare il peggio!

23 Febbraio 2015
http://s-www.lalsace.fr/images/0C4C7008-7444-4470-BD04-39B8A8460FC7/ALS_V0_07/l-ecrivaine-algerienne-assia-djebar-photo-afp-olivier-laban-mattei.jpg http://s-www.lalsace.fr/images/0C4C7008-7444-4470-BD04-39B8A8460FC7/ALS_V0_07/l-ecrivaine-algerienne-assia-djebar-photo-afp-olivier-laban-mattei.jpg
(trad. dal francese di Ada Donno)



[1] 15 romanzi tra il 1957 e il 2007, cioè in 50 anni, da La sete a In nessun posto nella casa di mio padre, senza contare le pièces teatrali e d’opera, lavori accademici.
[2] «Da quando ho realizzato il film La Nouba, il mio modo di scrivere è cambiato, ho imparato ad ascoltare le donne algerine…” ha dichiarato Assia (conversazione con Josie Fanon, in Domani l’Africa, 1977. Riportato da Ahmed Bedjaoui. Quotidiano Liberté, martedi 15 febbraio 2015. Cultura, p.15)
[3] E’ il pretesto per segnalare il film di Kamal Dahane “Assia Djebar, tra ombra e sole”.
[4] “Cinquantaduesimo anniversario dell’indipendenza algerina: sguardi dell’Oltremare francese”. In Anamnésis, fondatore Jean Benoît Desnel, direzione letteraria di Suzanne Dracius.
[5] Nel 1955, in Francia, Françoise Longeard, assistente di Nicolas Derieux, mise in scena “la donna cosmonauta”, un montaggio di testi ispirato a “Vasta è la mia prigione”, dominato dai temi dell’esilio della sofferenza, attraverso testimonianze del passato e del presente.
[6] Prima d’accettare questa proposta di candidatura, Assia Djebar aveva tenuto a “riflettere effettivamente in relazione all’Algeria e agli anni neri, al decennio nero del 1990, in cui tanti miei amici francofoni hanno pagato con la vita”. 
[7] Quotidiano Le soir d’ Algérie. Martedì 17 febbraio 2015, p. 6




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Progetto mediterraneo
ISLAM E DEMOCRAZIA. I DIRITTI DELLE DONNE
TRA PRECETTI RELIGIOSI E
PAESI IN TRANSIZIONE

di Ada  Donno

C’è un’immagine che conservo netta nella memoria, uno di quei momenti preziosi della vita che significano una svolta e un inizio: era il maggio del 1989, a Cipro. Eravamo in tante, invitate dalla Federazione democratica internazionale delle donne e dal Pogo, organizzazione storica di donne cipriote, a un meeting mediterraneo per la pace. Durante una pausa dei lavori, mentre le altre convegniste erano andate a fare shopping ai mercatini di Larnaca, con Linda Mattar e Zahia Safa, libanesi che avevo già conosciuto in un'altra occasione, avevamo optato per una passeggiata sulla spiaggia. 
Di là dal mare, sulla sponda libanese di fronte a noi, infuriava la guerra e  Linda era angosciata perché non riusciva a telefonare alla sua famiglia a Beirut. Zahia se ne stava pensierosa e poi disse che aveva deciso di lasciare il suo lavoro fortunato nella sede della Federazione democratica internazionale delle donne, a Berlino, e di tornarsene al suo villaggio sperduto sullo Chouf, dove per lei c’era tanto da fare. Fu così che ci mettemmo a parlare di donne e Islam. E parlammo anche della possibilità di creare una rete oppure un’associazione di donne mediterranee.
Ricordare quell’incontro mi aiuta anche a dire che non è tanto da ricerche teoriche e studi, ma piuttosto da esperienze  come quella – e come altre che l’hanno preceduta e seguita nell'arco di un ventennio - che nascono le mie convinzioni e conoscenze sull’argomento, peraltro talmente vasto e complesso da non potersi esaurire in una esposizione di poche pagine. E d'altra parte non mi azzardo ad addentrarmi nelle questioni di ordine storico o filosofico o giuridico che lo compongono, né tanto meno posso avventurarmi sul terreno assai scivoloso per me di questioni religiose o teologiche.
Il mio interessamento al tema risale, per la verità, ai contatti e agli incontri che mi era capitato di fare da quando pubblicavamo Iride, piccolo giornale di donne ch’era stato registrato a Lecce, ma aveva la redazione a Firenze, con l’ambizione un po' smisurata di essere voce femminile nel movimento per la pace degli anni ’80. 
Erano gli anni dei pacifici assedi, accaniti e fiduciosi,  alle basi missilistiche di Comiso e  Greenham Common (nomi che forse dicono poco alle generazioni più giovani della mia); delle conferenze mondiali per la pace come quella sponsorizzata dalle Nazioni Unite nell’86 a Copenhagen, affollata di attivisti, ma altezzosamente disertata dai grandi media occidentali, che la bollarono come "condizionata dai sovietici", per via della presenza annunciata della delegazione Afghana del presidente Najibullah (che fu poi impiccato a un palo segnaletico dai talebani fanatici e rozzi, entrati a Kabul dalle retrovie pakistane grazie al potente sostegno della compagnia petrolifera americana Unocal e all’inerzia interessata dell’Europa). 
Ed erano gli anni in cui, mentre infuriava la guerra fra l'Iran e l'Iraq, mi capitava d’intervistare per Iride le “mujaheddine” iraniane in lotta clandestina contro la dispotica teocrazia degli ayatollah, che aveva preso il posto della corrotta e ormai screditata monarchia dello Scià. O le irakene in esilio che, dall’altra parte della stessa frontiera, facevano la stessa resistenza clandestina contro la stessa guerra. O le agguerrite madri dell’intifada palestinese… Esperienze che mi facevano intravedere quanto complesso fosse quel “mondo islamico” di cui si parlava, e si parla tuttora, con troppa superficialità. E quanto composito sia il movimento che dentro le società musulmane  procede verso il cambiamento.
Naturalmente  curiosa di oltrepassare confini dietro i quali c’erano le “altre”, ho gradualmente sentito crescere in me quella “struggente consanguineità” di cui parlava Joyce Lussu, cara amica e maestra partigiana, traduttrice di poeti turchi, africani e kurdi, che da lei, in tanti, abbiamo imparato a conoscere e amare.
Consanguineità mediterranea, mi dicevo, che a me donna del sud  faceva scoprire, non senza qualche turbamento, di avere più sguardi e percezioni in comune con le libanesi e le algerine, per esempio, che non con le finlandesi o le britanniche.
Un’associazione di donne mediterranee era un desiderio che col tempo è divenuto progetto compiuto di un luogo al quale giungere, muovendo dai nostri rispettivi sud e navigando attraverso il genere femminile, affrontando il mare aperto delle contraddizioni strutturali e delle diversità culturali e dell’ineguale distribuzione dei diritti.
Pensarsi come soggetto che costruisce quel luogo di donne ha significato, immagino per tutte in eguale misura, superare divieti antichi quanto le nostre rispettive storie, individuare poteri che da secoli emarginano, escludono, cancellano le donne. Ha significato faticare per mettere insieme frammenti di risposte alle molte domande, seguendo il filo di un confronto serrato fra noi, e a volte anche aspro, perché mai sottratto alla necessità di misurarci con i conflitti che ci attraversavano e ci sovrastavano: le guerre della ex Jugoslavia, la Palestina e Israele, Cipro e la Turchia, l’Algeria, il Marocco e i Sahrawi, il Medio Oriente.
Dovendo scegliere delle parole chiave per la nostra comunicazione, ci parvero giuste uguaglianza, giustizia e pace, per cominciare a stabilire l’interscambio tra soggetti distanti attraverso spostamenti che  avvicinassero le opposte rive, attraversassero uno spazio comunemente percepito come percorso migratorio unidirezionale (quando invece l’esperienza insegna che lo spostamento avviene sempre nelle due direzioni); gettassero “ponti di comunicazione”. Laddove la parola ponte stava a significare la difficoltà, da una parte e dall’altra,  di seguire le vie già tracciate e la necessità di scavalcare frontiere; di prendere le distanze dal proprio universo di appartenenza per un momento, quanto bastava per cogliere il punto di vista esterno a se stesse e al proprio contesto culturale e riconsiderarsi con uno sguardo modificato.
Ma per quali risultati, quali costruzioni?
Un primo risultato è proprio quello di far cadere, attraverso l’emozione di incrociare racconti così stranamente somiglianti ai tuoi in luoghi così lontani, l’idea pregiudiziale dell’irrimediabile alterità culturale e dell’impossibilità dell’incontro fra le diversità (laddove “diverso” non implica un giudizio di valore). 
Poi si può imparare a “riconoscere” le diversità (e non solo “tollerarle”: giacché tolleranza è concetto illuministico e illuminato che però non implica la rinuncia a un pregiudizio di superiorità), fino a scoprire una nuova comune chiave di lettura di termini come identità, differenza, oriente, occidente.
Ho scoperto di recente che di una ricerca del “comune sguardo che unisce”, parlava nientemeno che un Accademico dei Lincei di origini salentine, il galatinese Francesco Gabrieli, orientalista e arabista illustre, il quale, pur con approccio crociano e senza abbandonare i canoni estetici occidentali, aspirava a cogliere testimonianze individuali e comunitarie della civiltà araba attraverso la conoscenza dei poeti arabi, pre-islamici e islamici, che amava e traduceva.
Non è infrequente incontrare dei figli dell’occidente fascinati dall’oriente, come Gabrieli, e non c’è ragione di dubitare dell’autenticità del loro desiderio di comprensione.
Ma osservando l’attuale gran proliferare di pubblicazioni di improvvisati esperti che pretendono di aver penetrato l’essenza dell’oriente, vien fatto di ripensare al severissimo giudizio critico di Edward Said, professore di letteratura comparata all’Università di Columbia d’origine palestinese, recentemente  scomparso, sull’orientalismo fabbricato in occidente e l’interculturalismo di maniera. Said era assai severo perché - diceva - «negli scambi interculturali a circolare non sono verità, ma rappresentazioni». 
 «L’estetica del diverso – scriveva  alla fine degli anni ’70 -  la mistica del viaggio come ritorno alle origini, la fascinazione per un Oriente “autentico” e “arretrato” tradiscono in parte gli stereotipi di quell’immaginario collettivo e di quel “sapere” occidentale sull’Oriente che viene definito orientalismo... Basato su alcune opposizioni, quali libertà-tirannia, evoluzione-arretratezza, modernità-tradizione, attivismo-indolenza, onestà-corruzione, in cui l’Oriente è sempre associato all’elemento negativo, l’orientalismo è il filtro distorto e schematizzante attraverso cui l’Occidente costruisce la sua rappresentazione dell’Oriente».
Di tale rappresentazione distorta sono gonfi - denunciava ancora Said venticinque anni dopo -  libri più o meno voluminosi che inzeppano edicole e librerie, dai titoli altisonanti, che parlano di “islam messo a nudo”, di “minaccia araba”, di “complotto musulmano” ed evocano i legami tra “islam e terrorismo”. Sono scritti dagli strateghi della nuova crociata antislamica, che pretendono di trarre le loro informazioni  da sedicenti «esperti orientalisti che hanno tradito la loro vocazione di ricercator. Con gran supporto di televisioni e giornali, «tutti sono impegnati a riciclare le stesse genericità inverificabili al fine di mobilitare l’America contro i diavoli stranieri». Ed ecco come «la guerra contro l’Iraq, macchinata per ragioni che hanno a che fare con la volontà di dominio mondiale ed il possesso delle risorse energetiche, è divenuta una delle catastrofi intellettuali della storia».  

Said parlava riferendosi alla realtà americana, ma quella nostrana non è molto diversa.                            Anche da noi sono state riproposte, in maniera più o meno rozza, le deformazioni occidentaliste e gli stereotipi più abusati a giustificazione dell’abuso di potenza e della violenza. Dopo l’11 settembre 2001, alcuni intellettuali hanno trasmodato in un avvitamento nell’eurocentrismo, anzi nell’americacentrismo, profetando che quella sia stata la data d’inizio di una “nuova frontiera del XXI secolo”.
Qualcuno più raffinato ha rievocato con aperta ammirazione la maniera sbrigativa usata da Alessandro il Grande  per sciogliere il nodo di Gordio, simbolo dell’impossibilità di comunicazione fra Occidente e Oriente: un taglio netto di spada, che gli aprì il cammino verso la conquista dell’Asia.
Ma tant’è. «Ogni nuovo impero – concludeva amareggiato Said - pretende sempre di essere diverso da quello che l’ha preceduto, afferma che le circostanze sono eccezionali, che la sua missione consiste nel portare la civiltà, stabilire l’ordine e la democrazia, e che usa la forza come estrema necessità. La cosa più triste è che si trovano sempre degli intellettuali pronti a spiegare con parole soavi che l’Impero è benevolo e altruista».

La difficile ricerca della complessità


Ragionando su tutto questo, con passaggi che si sono succeduti nel tempo in luoghi diversi,  abbiamo preferito insistere sulla necessità dell’incontro faticoso e sulla sua convenienza ineludibile, lasciando da parte l’abitudine alla lettura eurocentrica, unilaterale e semplicistica dell’Islam e cercando di conoscerne la complessità.
Ecco, una costruzione alla quale vale la pena di lavorare – ci siamo dette - è la ricerca della complessità, che presuppone la  rinuncia ad ogni tentazione neocolonialista di “esportazione della democrazia e dei diritti” o di “protettorato” nei confronti delle “povere sorelle” dei paesi islamici.
Andando oltre la rappresentazione mediatica, si può scoprire che non c'è un Islam monolitico, immobile, repressivo e fanatico, ma tanti Islam. Dai precetti del Corano, dalla realtà  politica dei paesi islamici, dalla storia delle rivoluzioni sociali e di liberazione nazionale, dalla diversa codificazione della condizione delle donne  nei vari paesi, dagli stessi movimenti migratori, esce uno spaccato assai variegato dell’Islam.
Ma le Twin Towers e le “guerre preventive” dell’impero hanno tremendamente complicato le cose. Tra  gli “effetti collaterali” delle guerre e del terrorismo c’è stato il ritorno in auge di quella che Said chiamava la «conoscenza pressoché caricaturale dell’Altro, fondata sui si dice e sulla lettura sommaria dei giornali». .
Quella che ha fatto più chiasso è stata forse Oriana Fallaci che, appena pochi giorni dopo quell'11 settembre, ci ha sbattuto sullo stomaco con violenza il suo pamphlet  "La rabbia e l’orgoglio".
Che dire di più di quanto non sia stato detto già, con competenza e misura (fortunatamente), in replica allo spirito di crociata, al razzismo occidentalista, alla volontà di potenza, ma anche  alla sostanziale insipienza, che trasudano dalle parole della Fallaci? Si confonde la Bibbia col Corano, le leggi dei talebani con le prescrizioni di Maometto, la situazione dell'Afghanistan con quella di tutti i Paesi musulmani.... Si confonde? Impressiona che il delirio della Fallaci non sia stato pubblicato da La Padania, ma dal Corriere della sera, con grande risalto.
Urlare dalle pagine del maggiore quotidiano italiano che «se crolla l'Occidente, al posto delle campane ci ritroviamo i muezzin, al posto delle minigonne ci ritroviamo il chador, al posto del cognacchino il latte di cammella…», sembra una forzata operazione di disinformazione. A chi serve urlare (da Manhattan) il richiamo del suolo e del sangue e invocare la difesa della “nostra cultura”, se non a chi ha interesse a demonizzare il nemico, dimenticando (dimenticando?) che la nostra cultura – ogni cultura - è il risultato di millenarie contaminazioni ed è destinata comunque ad interagire con le altre e, interagendo, a modificarsi? Se non a tracciare nuove rotte dell'intolleranza e della xenofobia – riproposte infatti ad ogni occasione - per chi incita alla “pulizia etnica” nei confronti degli immigrati? D’altra parte, perché no, se la guerra è contro l'Islam (tutto l'Islam), non dobbiamo guardarci prima di tutto da quelli che sono riusciti a "infiltrarsi" tra noi?
Ma facciamoci caso: la xenofobia, quella che proclama di voler difendere la purezza etnico-razziale-culturale-gastronomica, nell'agitare l'odio opera sempre una selezione di comodo, che di solito è di censo. Si esercita sul latte di cammella ma non sulla Coca Cola o su McDonald’s; insulta la “vociaccia sguaiata” del muezzin, ma non trova da ridire sulle generazioni intere d’italiani nutrite a forza di western hollywoodiani, che hanno rappresentato il grande massacro dei pellirosse d'America come epopea gloriosa dell’intero occidente e trasformato lo sterminatore Custer in un idolo della nostra infanzia ignara, Wounded Knee in un sacrario eretto alla "democrazia americana". Per non parlare di Rambo ed altra robaccia simile. Comunque, materia estranea alla nostra tradizione culturale, per capirci.

Una rivalità antica


La storia del rapporto conflittuale tra Oriente e Occidente è antica, ci è stato insegnato. Risale alle lontane e favolose radici del mito, che la tragedia greca ha drammatizzato rappresentando nella figura selvaggia e passionale di  Medea l’impatto traumatico dell’oriente barbaro con l’occidente civile e razionale. Si dipana nei suoi aspetti storici, politici e culturali, nelle forme della lotta religiosa e di conquista tra l’Europa cristiana e il mondo arabo e islamico in poderosa espansione; nelle forme del lungo conflitto con l’impero ottomano, della conquista napoleonica dell’Africa settentrionale, della colonizzazione inglese e francese (con qualche sconsiderato tentativo italiano), del “risveglio islamico” anticoloniale, fino alle guerre più recenti per il controllo del petrolio.
Ma rapporto conflittuale significa per forza reciprocamente distruttivo? La storia ci parla di un confronto che in molti momenti è stato fecondo, come testimoniano l’architettura, la lingua e la letteratura europee. Citando Averroè ed Avicenna, gli arabi si gloriano ancora d’aver salvaguardato la scienza e la civiltà quando l’Europa era immersa nelle tenebre del Medio Evo. Nel Trattato sulla tolleranza Voltaire esaltava la capacità del Gran Sultano di “governare in pace venti popoli di diversa religione”.  

Eppure oggi, di nuovo, con una semplificazione brutale e fuorviante delle cose si dà voce alle recondite e oscure paure dell’Occidente di fronte al “risveglio islamico”, evocando il peggio dell’immaginario comune stratificatosi nei secoli sull’Islam: i beduini primitivi, il turco predone che rapisce fanciulle inermi per portarle all’harem del pascià libidinoso e lascivo; i suq sudici brulicanti di uomini e merci di cui diffidare; la poligamia e il burqa.  Per non dire delle visioni più truculente e feroci, dal taglio della mano al ladro, la lapidazione dell’adultera, la testa mozzata del nemico.
Cose drammaticamente reali, beninteso. La nullità sociale delle donne nell’Afghanistan dei talebani l’abbiamo denunciata assieme, donne occidentali e donne dei paesi islamici. E insieme abbiamo lottato per salvare le nigeriane condannate alla lapidazione per adulterio.
Ma identificare l’Islam con queste tragedie, senza specificare, non aiuta a capire. Così come sarebbe mistificante identificare l’occidente cristiano con i feroci processi del Grande Inquisitore Torquemada che, legittimando il concetto razzista della limpieza de la sangre, la purezza del sangue, gettarono il seme velenoso che avrebbe fecondato i campi di sterminio nazisti.
Non ha senso, intendo, chiamare in causa prioritariamente la religione islamica o il Corano quali responsabili di usanze che sono retaggio del patriarcalismo tribale aracaico. Come non avrebbe senso sostenere che lo jus primae noctis, barbara usanza medievale, sia stata generata dalla religione cristiana.
La storia e l’influsso delle religioni vanno spiegati partendo dalla storia e dalle vicende delle società, e non viceversa.
La società islamica – sostiene la studiosa Leila Ahmed nel suo ottimo libro Oltre il velo, in cui si fa una ricostruzione storica puntuale e illuminante dell’evoluzione (e dell’involuzione) della condizione femminile nell’Islam - non era alle origini più misogina e oppressiva delle altre. L’Islam si afferma in società già dominate da un sistema patriarcale connotato da crudele misoginia. Anzi, gli storici sono concordi nel ritenere che, sotto molti aspetti, la predicazione maomettana abbia comportato miglioramenti significativi rispetto alla condizione pre-islamica delle donne. Se non che, gradualmente, i valori di uguaglianza e pari dignità umana proclamati dal Profeta sono stati relegati alla sola sfera spirituale e morale, mentre in quella giuridica e sociale si sono imposti meccanismi e disposizioni di segregazione e oppressione.
Ma tale percorso involutivo non è strettamente connaturato all’Islam, così come la misoginia che contrassegna le culture giudaica e cristiana non è strettamente connaturata alle corrispettive religioni. Essa è eredità del patriarcalismo arcaico assorbito dalla cultura islamica, come da quella giudaico-cristiana e dalle altre dell’area mediterranea.
Seguire la  ricostruzione storica  di Leila Ahmed ci fa scoprire, inoltre, che nell’Islam (sia quello interno ai paesi islamici, sia quello della diaspora migratoria) si svolgono molteplici percorsi di riflessione ed elaborazione, dalle università all’associazionismo femminile, per alcuni versi non dissimili da quelli occidentali. Ci sono filoni di ricerca interni all’esperienza religiosa, che puntano ad una migliore lettura dei testi sacri, per recuperarne i principi di uguaglianza a e pari dignità proclamati, e ricordano da vicino la ricerca delle teologhe femministe cristiane, le quali contestano la lettura androcentrica delle Scritture, sostenendo che è stato il patriarcato religioso a pretendere di attribuire carattere di sacralità  a prerogative soltanto maschili e che lo stesso concetto di Dio è stato mascolinizzato attraverso i simboli ed il linguaggio della realtà maschile (da qui, il paralogismo fulminante della teologa femminista Mary Daly : “se Dio è maschio, il maschio è Dio”. Con le conseguenze che sappiamo in ogni settore della vita umana).
Anche nell’Islam ci si muove sul terreno di una rilettura dei testi sacri svincolata dal timore del magistero dottrinale, capace di misurarsi sia con le molteplici tradizioni religiose, sociali e culturali che hanno condizionato la vita delle donne, sia con la questione del potere all’interno delle istituzioni religiose.
Accanto a ciò, sta la sequenza dei problemi che non possono essere ignorati da una società in evoluzione: l’utilizzazione dei testi sacri come una delle fonti del diritto, la formulazione di un’etica laica condivisa, la laicità dello stato, la separazione della sfera religiosa da quella politica.
Questioni assai più delicate che in occidente, non tanto per la natura della religione musulmana, quanto per il modo in cui si è connotata storicamente l’esperienza dell’Islam. Se il “risveglio della nazione araba” dal lungo sonno della decadenza coloniale ha scelto, per definirsi, l’Islam, ciò ha delle ragioni che non vanno demonizzate, ma vanno indagate con gli strumenti della storiografia moderna.
Non si ripeterà mai abbastanza quanto sia  mistificante  identificare la componente fondamentalista dell’Islam con l’Islam in quanto tale. Il fanatismo, anche quando assume le forme sconvolgenti del terrorismo a noi note, non è una caratteristica peculiare del mondo islamico. Tanto è vero, che i media occidentali hanno fatto ricorso al termine kamikaze, che è giapponese, per significare lo shahid, il martire di Allah che si fa esplodere insieme al suo bersaglio nemico.

I paesi islamici si connotano in maniera differente  fra loro anche per quel che riguarda i diritti della donna. Che sono pressoché inesistenti in paesi dove permane un’organizzazione sociale  semi-feudale, come in Arabia Saudita o in Kuweit, Oppure sono riconosciuti limitatamente alle classi alte laddove ha agito un Islam riformatore, come in Egitto, in Siria, in Libano, in Iraq. O sono ammessi su scala sociale più larga laddove l’Islam si è identificato con i movimenti rivoluzionari, come in Algeria e, almeno per una fase, in Iran.
E’ interessante, peraltro, seguire Leila Ahmed nell’analisi del ruolo svolto dal colonialismo europeo rispetto all’involuzione in senso fortemente misogino delle società islamiche. Il processo di erosione delle posizioni conquistate dalla donna islamica (ed araba) nell’ultimo secolo - di cui il caso afghano-talebano è stato il più eclatante – è connesso in buona misura con l’offensiva neo-colonialista dell’occidente per il controllo delle risorse energetiche in Medio Oriente.
E’ facile comprendere che, se nelle situazioni di conflitto e di guerra le condizioni materiali delle popolazioni intere diventano difficili, lo diventano doppiamente quelle delle donne. Chi ha visitato almeno una volta i Territori occupati della Palestina si rende conto di come suoni impotente l’invito rivolto alle donne palestinesi a rivendicare prioritariamente i loro diritti di genere, nelle condizioni estenuanti dell’occupazione militare israeliana. Così come l’invito rivolto alle donne irakene ad intensificare la loro partecipazione alla vita sociale e politica, mentre hanno da combattere una drammatica lotta quotidiana per la sopravvivenza, inasprita dalla guerra. Ogni appello alla rivendicazione dei "diritti umani elementari" delle donne suona falso, se resta separato dalla denuncia delle cause strutturali e da quelle congiunturali, locali ed internazionali, delle loro sofferenze.
E’ d’altra parte inoppugnabile, stando a quanto si legge dalle ricostruzioni storiche, che le condizioni delle donne siano migliorate in concomitanza con le  rivoluzioni anticolonialiste che hanno consentito loro di fare i primi passi in avanti, rispetto allo stato di precedente nullità sociale dove – come si diceva -   la donna lavoratrice era "schiava di quattro padroni": dell’emiro, del bej (il proprietario terriero), del mullah (l’autorità religiosa) e del marito, (o del padre, o di  qualsiasi altro parente maschio).

Oltre il velo


La maghrebina  Karima Anouche , nella sua serena testimonianza Essere donna in Islam,  ricorda come, per lei bambina nata in una società musulmana, la religione significasse non l’oppressione, ma la festa e la gioia: la festa della fine del digiuno, del montone, del compleanno del Profeta erano le occasioni rituali in cui si indossavano i vestiti più belli e si andava a fare visita a parenti e amici per augurare buone feste. E racconta la percezione del cambiamento intervenuto alla fine degli anni settanta, quando, da adolescente, ha cominciato ad osservare attorno a sé comportamenti per lei inauditi, legati a nuove letture rigoriste della religione musulmana che si andavano affermando: le sue amiche che da un giorno all’altro indossavano l’hijab - il velo - l’elemento più appariscente della codificazione islamista dei comportamenti sociali delle donne. E il passaggio breve dalla riprovazione sociale per le ragazze che rifiutavano di indossarlo, bollate col nome di mutabarija (le “svelate”, coloro che esibiscono il corpo),  alle aggressioni violente per strada.
La generalizzazione del velo - non prescritto peraltro dal Corano - come segno esteriore dell’ideologia islamista si è avuta dopo la rivoluzione khomeinista del ’79 in Iran. A partire da lì il velo diviene chador, simbolo di reclusione delle donne. Eppure – obietta Karima - il Corano parla chiaro: “nessuna costrizione nella religione”.
E infatti i musulmani progressisti non lo considerano affatto un obbligo.
L’hijab, il chador, o il burqa , - comunque si chiami il velo che dell’oppressione della donna islamica è il simbolo - eccetto che in pochi paesi come l’Iran o l’Afghanistan talebano, non è un’imposizione generalizzata: nella maggior parte dei paesi musulmani è una scelta  legata alle convinzioni religiose, alla tradizione, spesso frutto di pressioni familiari o coniugali (non di rado è scritta nel contratto di matrimonio). O addirittura una consuetudine rispondente a criteri di praticità.
Il ritorno, più o meno volontario, di molte donne all’uso del velo è un fenomeno conseguente al declino dell’ideologia laica e all’affermarsi prepotente di frange integraliste in alcune società islamiche,  in coincidenza con il sussulto nazionalista che ha attraversato il mondo arabo e l’Islam intero, a seguito della sconfitta subita dall’Egitto da parte di Israele nel 1967.
 Una ricerca condotta negli anni ’80 da Leila Ahmed fra le studentesse universitarie del Cairo, le quali, attratte dai movimenti integralisti, avevano adottato l’abbigliamento “islamico”, rivelava che in gran parte si trattava di ragazze provenienti dalle campagne e dai ceti meno abbienti, che lo avevano scelto perché le identificava come ragazze rispettabili e dissimulava l’origine di classe. Era visto, insomma, come una protezione che consentiva di circolare più liberamente e veniva letto come strumento di dignità riconquistata e di rifiuto dell’identificazione come oggetto di consumo.
Con questo, beninteso, non si può tacere che argomentazioni di questo tipo consentono alla società maschile di ricostruire i suoi privilegi e il suo potere.
Tuttavia nella ricerca delle spiegazioni  bisogna tener conto dei fattori socioculturali, della dimensione storica, della complessità e della diversità delle situazioni locali.
Attribuire alla questione del velo eccessivo valore simbolico, sia da parte di chi lo rifiuta, sia di chi lo rivendica, rischia di fomentare contrasti intorno ad un falso problema, soprattutto in paesi europei d’immigrazione musulmana, com’è avvenuto recentemente in Francia.

E’ riformabile l’Islam?

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“In questi ultimi tempi – scrive lo studioso Khaled Fouad Allam - uno dei temi centrali del dibattito politico e culturale è stato quello della compatibilità fra islam e democrazia. Eterna questione che agita la società contemporanea, ma che spesso viene posta considerando la religione musulmana un fenomeno definitivamente definito, dunque irriducibile e irriformabile".
"Il primo errore sta nel ritenere che l’islam e i musulmani non si integrino in Occidente ma rimangano sempre uguali a se stessi".
"Il secondo errore consiste nel considerare l’immigrazione come un semplice trasferimento di identità. Anche secondo questa ipotesi, gli immigrati rimangono tali e quali; si occulta così tutta la traiettoria molto complessa che il vivere in prima persona l’immigrazione comporta. Il fatto di vivere in un’altra società implica in ogni caso una diluizione dell’identità di partenza: l’immigrato non è mai lo stesso di prima, perché è costretto a confrontarsi in un corpo a corpo con una realtà che gli è completamente nuova, e nel silenzio della società d’accoglienza la sua identità subisce una trasformazione. Questo fenomeno in genere non è oggetto d’interesse; ma ne è oggi testimone la letteratura. Esiste una letteratura dell’immigrazione che non è soltanto narrazione delle difficoltà obiettive, ma che narra proprio il mutamento".
"Il terzo errore è più legato alla sfera religiosa: non si tiene conto del fatto che nell’immigrazione il rapporto con la religione si trasforma.”
Non pare esservi dubbio che, dal momento dell'incontro con la cultura europea, l’Islam si pone domande precise sull’organizzazione della società e sugli strumenti per intervenire e risolvere i suoi problemi. Ma modernizzare non significa necessariamente occidentalizzare. La realtà dei movimenti  riformatori, quelli per la democrazia, per i diritti delle donne, per i diritti civili, per i diritti umani  nei paesi islamici, è assai più ricca e composita di quanto non si sappia e non si dica. La suddivisione fra quelli che propugnano il cambiamento restando dentro l’Islam ed i filo-occidentali tout court è piuttosto grossolana e non rende l’idea del dibattito in atto in quelle società.
Alla domanda se è possibile riformare la cultura islamica dall’interno e se i diritti delle donne possono affermarsi non solo nella sfera etica, ma anche nella politica e nella società islamica, Leila Ahmed risponde affermativamente, ipotizzando un percorso non dissimile da quello dei paesi occidentali. Ma non nel senso di proporre alle donne islamiche il modello del femminismo europeo in alternativa globale alla loro cultura d’origine (come hanno preteso di fare, attraverso un’aperta propaganda in tal senso, le potenze coloniali prima e neocoloniali oggi).
Le donne occidentali hanno combattuto le loro lotte contro il patriarcato inserendole  nel tracciato della cultura “maschile” a cui appartengono, trasformandola e rendendola meno androcentrica, senza che nessuno abbia mai chiesto loro di rinunciare alla loro cultura in toto. Perché le donne islamiche non dovrebbero potere scegliere i valori che riconoscono come più validi per loro, senza dover rinunciare alla propria cultura di origine?
“Una lotta praticabile per il vero spirito dell’Islam cresce dentro l’Islam..- scrive Omid Safi, docente di studi islamici alla Colgate University - Che cosa chiedono i riformatori musulmani all’occidente? Di lasciare che siano gli islamici a decidere che tipo di Islam debbano avere”.
E, ancora a proposito delle “rappresentazioni orientaliste”, scriveva Said: “Io non ho un vero Oriente da difendere. Al contrario, io ho il più grande rispetto per la capacità che questi popoli hanno di difendere la propria visione di ciò che sono e di ciò che vogliono diventare”.
Per la giurista iraniana Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace 2003, occorre procedere sul doppio binario: giungere ad una migliore teologia dell’Islam, ma contemporaneamente lavorare per trasformare le società in cui vivono. La misura del cambiamento non è data solo da un migliore pensiero islamico, ma da una simultanea e collegata prassi di trasformazione della società nel senso dei diritti umani, libertà, pluralismo, giustizia.
La ricerca della complessità impone di guardare alle diversificazioni interne al mondo islamico come ad una possibilità. Diversificazioni che non hanno a che fare solo con letture diverse del Corano, ma sono spesso da collegarsi a scelte politiche, sociali, culturali (ideologiche in senso lato), allo stesso modo che, da noi, non ha a che fare solo con la lettura diversa del Vangelo ciò che differenzia don Gelmini da monsignor Bettazzi o don Tonino Bello.
A proposito dell’assegnazione  del premio Nobel a Shirin Ebadi, due anni fa, qualcuno sostenne che esso era un colpo per i sostenitori della linea dura in Iran, ma era un duro colpo anche per i “falchi” in occidente, quelli della linea dura contro il cosiddetto“Asse del male”, perché una presenza come la Ebadi rendeva più difficile continuare a demonizzare l’Iran, collocato, dopo l’Afghanistan e l’Iraq, ai primi posti nella lista della prossima guerra, insieme alla Siria.
Non c’è dubbio, d'altra parte, che a una radicalizzazione del sentimento antislamico in occidente  corrisponda una radicalizzazione  uguale e contraria del sentimento antioccidentale nei paesi islamici; che al delirio crociato occidentale si contrapponga il delirante fondamentalismo orientale.

La ricerca di un’uscita laica e razionale dal conflitto è la sfida per tutte e tutti.
Ma purtroppo non va in questa direzione la chiamata ad una nuova secolarizzazione del pensiero cattolico e l’invito ad una nuova santa alleanza tra cattolici e liberali contro la minaccia islamica, che sembra trovare in questo momento insospettati consensi in Italia, con  effetti che si riverberano immediatamente nelle vicende politiche degli ultimi tempi: a partire dalla discussione sull’integrazione giuridica dei musulmani in Europa, a quella sul richiamo alle radici giudaico-cristiane nel preambolo del trattato costituzionale europeo. Senza escludere quella sul referendum italiano sulla procreazione medicalmente assistita.

 Un sentimento diffuso d’insicurezza, accentuato dalla crisi economica, spinge all’arroccamento e alla ricerca di una rassicurazione identitaria che in certi casi passa per la negazione dell’”altro”, sta sollecitando un vento crescente e diffuso di irrazionalismo che sembra succedere al secolo delle grandi ideologie, quello appena trascorso.
Cosa ci resta? Non accettare lo scontro di civiltà prefabbricato, quello che Tahar Ben Jelloun chiama, parafrasando, lo “scontro d’inciviltà”. Rispondere alla “catastrofe intellettuale dei comunicatori arroganti” concentrandosi su un lento lavoro in comune di culture che si accavallano, “attingono le une dalle altre e coabitano in misura più profonda di quanto non lascino pensare dei modi di comprensione riduttivi e inautentici: ma - avverte saggiamente Edward Said -  questa forma di percezione più ampia esige tempo, ricerche pazienti e sempre critiche".
E’ questa la pratica dell'incontro faticoso, dettata dalla consapevolezza della convenienza ineludibile di sciogliere con infinita  pazienza il nodo gordiano che apre la strada alla convivenza e alla pace.



Riferimenti bibliografici

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Khaled Fouad Allam, Multiculturalismo e interculturalità nella relazione Islam-Europa, in
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Marisa Forcina, Una cittadinanza di altro genere, Milano, Franco Angeli 2003
Wendy Kristianasen, Confronto tra donne all’interno dell’Islam, Le Monde Diplomatique – 4/2004
Joyce Lussu, Sguardi sul domani, Andrea Livi Editore, Fermo 1996
Vera Petrosillo Velluto, Donne e fondamentalismo religioso, in IRIDE n.3, Firenze 1991
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            --, An unacceptable helplessness, Al-Ahram Weekly online, 16 - 22 January 2003
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Pierre Tevanian, Una legge antifemminista e antisociale, Le Monde Diplomatique, febbraio 2004
Voltaire, Trattato sulla tolleranza, Feltrinelli 1995
Christa Wolf, Medea. Voci, Roma, Edizioni e/o 1996
Howard Zinn, Non in nostro nome, Il Saggiatore 2003

(estratto da: Donne, politica e istituzioni a cura di Marisa Forcina, Fiorella Perrone e Francesca Perrone, Milella ed. Lecce, 2007)

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DONNE DI PACE ARABE ED EBREE NEL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE

di Ada Donno


Donne di pace che hanno scelto il pericolo

Mi hanno costretta a scegliere tra la morte e il varco
ma io ho scelto il pericolo
mi sposto passo dopo passo
senza curarmi delle fosse
che ostacolano il mio cammino…
…Sono versi di Hanan Awwad, poeta, saggista, scrittrice palestinese. Lei stessa ce li recitò una sera d’estate di due anni fa a Serrano di Lecce, dove una giuria intelligente assegnò a lei e ad un suo collega e amico poeta israeliano un prezioso simbolico premio detto “Olio della poesia”. Hanan è di Gerusalemme, nata da una famiglia di intellettuali da cui ha ricevuto un lascito inestinguibile: un viscerale attaccamento alla patria palestinese,  una profonda conoscenza della straziata storia del suo popolo e, insieme, una volontà appassionata di difendere le libertà e i diritti umani universali. 
Come poeta, ha scritto “con il sangue” il senso di perdita e la pena del suo popolo defraudato della terra, l’amore e lo struggimento per la patria incatenata, lo sconforto e la speranza irreprimibile.
Come attivista, Hanan ha dedicato gli anni migliori della sua vita all’impegno per una giusta soluzione del conflitto Israelo-Palestinese, sempre ispirato alla consapevolezza che la pace per i palestinesi è fondamentale non solo per la qualità delle loro vite, ma per la loro stessa sopravvivenza.
Dal 1988 Hanan è presidente della sezione palestinese della Women’s International League for Peace and Freedom. Nel 1990 fu tra i coordinatori di una memorabile Marcia per la pace con “catena umana” attorno a Gerusalemme, nel 1991 contribuì per la parte palestinese a preparare la conferenza sul Medio Oriente di Madrid. Hanan osserva i suoi fratelli e sorelle palestinesi trasformati in rifugiati sulla loro stessa terra e si prodiga in una inesausta attività di movimento, di studio e di scrittura perché essi non siano spinti nell'assenza e perché la realtà palestinese non sia rimossa dalla coscienza del mondo.

Alyiah Strauss è israeliana: arguta, lo sguardo diretto e franco, indulgente e forte. Arrivò in Israele dall’Europa dell’est inseguendo come tanti altri ebrei il sogno di una terra promessa. Ma non voleva realizzarlo al prezzo della distruzione di un sogno altrui. Né intendeva coprirsi di quella sorta di immunità morale che dà alle vittime di ieri il diritto di produrre altre vittime oggi.
Alyiah è una donna di pace, sa che non può esserci pace là dove c’è occupazione militare, arbitrio, oppressione. E’ insegnante di liceo a Tel Aviv ed è presidente della sezione israeliana della Women’s International League for Peace and Freedom, che è composta di donne arabe ed ebree insieme. Vede con apprensione la società israeliana diventare ogni giorno più reazionaria, bellicosa e chiusa in se stessa, vede le disuguaglianze e le violazioni dei diritti umani, il razzismo e l’ingiustizia acquistare nuove forme e significati che vengono accettati e giustificati da una larga parte della popolazione israeliana. Osserva la situazione sociale ed economica del suo paese e il sistema dell’istruzione in cui lavora e pensa che non possano non essere condizionati dal fatto che l’apparato militare e gli ininterrotti insediamenti abusivi di coloni nei territori occupati palestinesi inghiottono una enorme quota del bilancio nazionale a scapito di tutto il resto.
Un anno fa Alyiah venne all’Università di Lecce, invitata ad un convegno  su “La Nuova Triade Mediterranea: l’Acqua l’Olio e il Vino”, e coraggiosamente e impietosamente ci raccontò come Israele nel 1967 si sia appropriato, insieme alle terre dei palestinesi, anche dell’altro elemento vitale: l’acqua. Aggiornò a nostro beneficio il bollettino doloroso delle attività quotidiane di sradicamento di alberi, demolizione di case e confisca di terreni, delle angherie e prepotenze dei coloni israeliani e della resistenza dei contadini palestinesi che difendono il loro diritto a coltivare la propria terra palmo a palmo, contro i bulldozer dell’esercito. Ci spiegò che la costruzione del famigerato Muro di Separazione, voluto dal governo Sharon, significava privare i contadini di pozzi d’acqua ed ulivi da cui traggono alimento e vita. Sentendola parlare, alcuni tra il pubblico si domandavano se non avessero capito male, se non fosse lei stessa palestinese.

L’impegno della Wilpf in Palestina

Mi vengono alla mente queste due figure di donne, così ammirevoli e vere,  mentre cerco un modo non banale di raccontare il lunghissimo impegno della Wilpf per la pace in Palestina.
E penso che forse è questo il modo migliore. Per due ragioni fondamentali. La prima è che non basterebbero le pagine assegnatemi per contenere l’intera geografia e la storia dell’impegno della Wilpf per la Palestina e, più in generale, per il Medio Oriente.  Neppure se, potendolo fare, mi mettessi a ripercorrere la grande produzione di materiali scritti che documentano la lunga fatica di interlocuzione con le istituzioni internazionali, particolarmente con il sistema delle Nazioni Unite.
La Wilpf ha da poco compiuto novant’anni, il conflitto fra Israele e Palestina l’ha visto accendersi e divampare, ha assistito al succedersi delle drammatiche alterne vicende, è stata sollecitata a dire e ad agire, nei limiti ristretti delle possibilità date, per contribuire a che le due parti e la comunità internazionale trovassero una via d’uscita negoziata e giusta. Se non altro per il prestigio che le deriva dall’età (ma certo non solo per quello) è tuttora, fra le organizzazioni non governative, una voce ascoltata grazie agli “statuti consultivi” e alle “relazioni speciali"di cui gode con il Consiglio economico sociale e con le agenzie delle Nazioni Unite.
Ma temo che, limitandomi all’esame dei documenti, non renderei il senso di un lavoro creativo, appassionato e sapiente svolto negli anni dalle donne che hanno fondato la tradizione politica della Wilpf e dato a noi, generazioni venute dopo, la possibilità di continuarla, riprodurla o trasformarla in cinque continenti.
Né renderei giustizia (e questa è anche la seconda delle ragioni di cui dicevo) a tutte le donne che hanno contribuito – e contribuiscono - a creare quel complesso spessore di rapporti, atti, giudizi politici che non possono non aver generato conseguenze, pur nella scarsa visibilità che il più delle volte avvolge il quotidiano caparbio agire delle donne (ma non è una qualità delle donne spostare le montagne senza farsene accorgere?) a tutte le latitudini e longitudini: da quelle che esponendosi prendono parola e si assumono la responsabilità della rappresentanza, a quelle che “scelgono il pericolo” e vanno sul campo, a quelle che si  muovono nel prezioso anonimato della ricerca di fondi o della raccolta di firme in calce ad un appello, fino alle tante e tante altre di cui non so, ma la cui stessa attività “invisibile” assicura la continuità dell’esperienza della Wilpf nel tempo e nello spazio.

Partire dalle persone nei cui corpi, biografie e vite quotidiane è iscritto un conflitto devastante come quello palestinese-israeliano, insomma, aiuta a salvaguardare la complessità di un’azione politica  che si configura come un difficile lavoro di mosaico, in un contesto così complicato che tante volte fa sentire piccole e inefficaci le nostre azioni e irrilevanti rispetto al mondo.
La Wilpf questo lavoro  lo svolge movendosi su un duplice asse. Quello (cui ho accennato) della interlocuzione con le istituzioni alle quali la comunità internazionale affida – o dovrebbe affidare, ma questo accade sempre meno in tempi come questi in cui conta soltanto la volontà di un paese strapotente -  la ricerca di soluzioni negoziate dei conflitti. E quello dell’attività “grassroots”, di base, che costituisce la nervatura vivente dell’organizzazione, quella che produce saperi e proposte, gesti e relazioni significative.
Un lavoro che non è in sé concluso, ma sempre alla ricerca della sintonia, o anche solo della occasionale alleanza, con altre donne – e altri uomini - che nel mondo hanno altre storie, altre tradizioni politiche. E al contempo è un lavoro che, senza ignorare le concause lontane e profonde del conflitto, si orienta all’individuazione dei nodi storico-politici che hanno complicato la “questione palestinese”, per posizionarsi con puntualità rispetto ad essi e vagliarne senza ambiguità le possibili uscite. Partendo dalla guerra del 1967 per giungere, attraverso gli accordi di Oslo e la contrastata  esistenza dell’Autorità Palestinese, fino ai nuovi inquietanti scenari aperti dalla recente vittoria elettorale di Hamas che (a seconda di come Israele e la comunità internazionale si rapporteranno ad essa) può significare una nuova drammatica complicanza oppure l’inizio di un imprevisto percorso di uscita.
Punto fermo della Wilpf è stato nel tempo il richiamo alla legge internazionale e alle numerose ( e mai applicate da Israele) risoluzioni adottate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che affermano il diritto d’Israele ad esistere e il diritto dei palestinesi ad auto-determinarsi costituendosi come stato indipendente e sovrano entro i confini segnati da quella “linea verde” violata 39 anni fa.
La Palestina nel corso degli ultimi decenni è stata immancabilmente iscritta in agenda nelle sessioni annuali della Commissione per i Diritti Umani a Ginevra e la Wilpf, presente nel Gruppo di lavoro delle organizzazioni non governative sul Medio Oriente, ha denunciato ad essa con tenacia la politica repressiva che ha stretto in una morsa le vite dei palestinesi e  ha reso i territori occupati – come ha riconosciuto onestamente l’attivista israeliano Uri Avnery -  “una serra in cui fioriscono gli attentatori kamikaze”.
C’è da chiedersi se i coprifuoco, i checkpoint, il muro di separazione, le demolizioni e le confische, che privano la popolazione palestinese dei residui di libertà e di vita, si giustifichino con il bisogno di sicurezza contro il terrorismo  – dice una dichiarazione della Wilpf del 2005  - o non piuttosto con  il tentativo tutto politico di forzare le condizioni ultime di un accordo territoriale con i palestinesi annettendosi quante più terre. Lo stesso ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza ordinato da Sharon è stato accolto dalla Wilpf con prudenza, mettendo in guardia contro la possibilità che si trattasse di “un disonesto tentativo di sottrarsi alla necessità di urgenti e autentici negoziati di pace con l’Autorità Nazionale Palestinese”.
Altrettanto dura è stata la critica rivolta all’inerzia delle istituzioni internazionali di fronte alla ri-occupazione brutale delle zone sotto il controllo dell’Autorità Palestinese ( “Come definire queste azioni di Israele, se non terrorismo di stato e crimine contro l’umanità, così come sono formulati dalla Convenzione dell’Aja del 1907, dalle Convenzioni di Ginevra, dal diritto internazionale e dall’Articolo 7 dello Statuto del Tribunale Penale Internazionale?”) e di fronte all’implacabile procedere del muro, delle demolizioni e degli insediamenti illegali.
 “A stare in Palestina – ha scritto, di ritorno a Ginevra da una missione laggiù, Edith Ballantyne, special advisor della Wilpf per il Medio Oriente, insignita dall’Onu del titolo simbolico di “donna del disarmo” – si prova fisicamente ed emotivamente euforia e fatica allo stesso tempo. E’ una terra bellissima, le valli verdi e le brulle colline scure ondulate proiettano un sorprendente mix di giovinezza  e vecchiaia, di attività e riposo, di innocenza e sapienza. La terra invoca pace ma non c’è pace. Mentre ciascuno vorrebbe vivere in pace, c’è tensione, conflitto e guerra. E questo è vero allo stesso modo per palestinesi ed israeliani”.

Non lasciate che il ramo d’ulivo cada dalla mia mano

Il 13 novembre del ’74 Yasser Arafat, allora presidente dell’Olp,  si presentò ad una memorabile Assemblea generale delle Nazioni Unite  tenendo in una mano il  fucile e nell’altra un ramoscello d’ulivo, e pronunciò una frase rimasta negli annali: “Non lasciate che il ramo d’ulivo cada dalla mia mano”. Erano trascorsi appena quattro anni dal terribile Settembre Nero libanese e due dall’orrenda strage di Monaco. Alcuni vollero prendere quella preghiera per una minaccia, ma era in realtà il primo coraggioso passo verso l’accettazione della formula “due Stati per due popoli” proposta dalle Nazioni Unite.
Trent’anni dopo, il giornale democratico israeliano Yediot Ahanorot, commentando gli effetti della costruzione del Muro della vergogna, che stava trasformando l’ulivo da simbolo di pace in  uno di furto ed estorsione,  scriveva: “Un albero d’ulivo è una meraviglia della natura. Non a caso è divenuto un simbolo. Sia per gli israeliani che per i palestinesi. Essi traggono da lì la loro vita, e noi scriviamo canzoni di pace sulla proverbiale colomba e il ramo d’ulivo. Ma se questo è ciò che accade agli ulivi in nostro nome, Dio abbia pietà della colomba....”
Impedire che il ramo di ulivo secchi del tutto è ancora un obiettivo primario per le donne palestinesi ed israeliane della  Wilpf, che sostengono attivamente strategie non violente di resistenza come la Olive Tree Campaign, progetto di piantumazione di nuovi ulivi là dove vengono sradicati; curano visite guidate nei Territori occupati finalizzate a “vedere con i propri occhi per testimoniare al mondo”;  promuovono giri di incontri con le comunità ebraiche degli Stati Uniti e di altri paesi; mettono in moto la diplomazia delle donne cercando il contatto con autorità di governo arabe alle quali chiedono maggiore responsabilità; tessono reti di relazioni con le altre donne del Medio Oriente; collaborano con le coraggiose donne di Machsom Watch, il gruppo che in Israele si occupa di documentare e testimoniare la brutale realtà dei posti di blocco, dei checkpoints e delle ruspe che spianano le case palestinesi, affinché anche gli israeliani ignari si rendano conto e nessuno possa dire: “Non sapevo”;  prendono parte nel centro di Tel Aviv alla muta  e severa protesta delle Donne in nero; collaborano alla Coalition of Women for Peace  e sostengono le attività di Bat Shalom a  difesa dei refusenik, i giovani obiettori di coscienza israeliani che finiscono sotto processo e in prigione.

A volte bastano piccoli gesti pieni di senso per misurarsi con quella sfida  grande che è andare alla ricerca di una possibilità diversa di affrontare il conflitto e di trovare una soluzione che non sia distruttiva di corpi, culture e risorse ma si traduca anzi in forza rigeneratrice.
Noi sappiamo che “con la Palestina nel cuore” è cresciuta qui in Italia, come in molti paesi europei, una generazione del movimento delle donne che ha cercato di superare i limiti del pacifismo testimoniale per misurarsi con ciò che “le donne con le donne possono fare”, andando sui luoghi dei conflitti per rendersi conto di persona, stabilendo il contatto fisico con i corpi colpiti e martoriati, superando le farragini delle diplomazie istituzionali per far crescere parole di donna in merito a pace e guerra.
Il 31 ottobre 2001 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione 1325 che raccomanda ai governi di riservare alle donne una quota negli organismi deputati alla prevenzione e gestione dei conflitti a tutti i livelli decisionali.
La Wilpf ne ha fatto una sua bandiera, perché lo considera un riconoscimento senza precedenti alle capacità potenziali delle donne di negoziare e al ruolo determinante che esse possono avere nello sviluppo di un modello alternativo di mediazione e dialogo politico internazionale.
Nello stesso tempo ha lanciato e va sostenendo la proposta di un Consiglio di Sicurezza Mondiale delle Donne, una sorta di osservatorio internazionale sull’operato del Consiglio di Sicurezza ufficiale (definito “un conclave senza potere del cui operato dubitiamo perché produce più che altro insicurezze”) e delle strutture dell’Onu.
Naturalmente nessuno può assicurare in anticipo che un conflitto verrà risolto positivamente e pacificamente se le delegazioni che negoziano saranno composte per metà da donne. Ma assegnare alle donne la giusta metà dei posti attorno ai tavoli negoziali, dove si decide il futuro, può essere l’inizio di un’altra storia.


Questo testo sta in: Per una libera aggiunta in più. Pratiche di donne tra femminismo e non violenza, a cura di Giovanna Providenti, Roma 2006


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DONNE ISRAELIANE E PALESTINESI CONTRO LA CULTURA DELLA GUERRA


di  Nava Elyashar, Bat Shalom, Gerusalemme

 


Sono una donna ebrea, israeliana, sposata e madre di tre figli. Sono laica per scelta e sono una convinta attivista di pace femminista. Sono un’analista informatica e vivo a Gerusalemme. Da molti anni opero in organizzazioni progressiste che hanno come obiettivo la  Pace e l’uguaglianza. Come donna e come madre sono convinta che l’unico modo per fermare la guerra sia quello di arrestare l’educazione alla cultura della guerra. Nella nostra area ci sono tre cose veramente influenti che consentono la diffusione della cultura della guerra, e sono la cultura del militarismo, la cultura della democrazia e la cultura del comportamento immorale.

La cultura del militarismo in Israele

In Israele, il militarismo è come l’aria che si respira. Non inizia quando vai nell’esercito e non finisce quando torni alla vita civile. E’ radicato nel nostro sistema, nelle nostre menti, nelle nostre coscienze e nella nostra anima, dalla nascita alla morte. Per 18 anni i genitori crescono e amano i propri figli, per poi accettare senza esitazioni l’obbligo di mandarli nell’esercito, di ammazzare e di essere ammazzati. Gli israeliani credono ancora di essere delle deboli vittime costrette a combattere per la loro vita contro i potenti. Il militarismo influenza le nostre vite fin dal primo giorno all’asilo nido, dove ci raccontano gloriose storie di guerra, e noi continuiamo su questa via anche quando siamo genitori e mandiamo i nostri bambini sempre allo stesso sistema d’istruzione. Il militarismo israeliano va di pari passo con lo sciovinismo tradizionale e il sistema patriarcale. Il militarismo è un modo di pensare, di sentire e di comportarsi. A volte è l’unico modo per un individuo di essere accolto nelle braccia forti e protettive della  comunità.
Una buona referenza del “servizio militare”  può aprirti le porte per una migliore carriera nella tua vita civile. Coloro che decidono di diventare soldati professionisti potranno lasciare l’esercito a 40-42 anni, con una pensione completa e con ancora maggiori opportunità per la vita civile. Molti ex-soldati sono invitati ad entrare a far parte di partiti politici, e sono spesso eletti parlamentari o membri del governo. Dal Parlamento hanno il potere di decidere su questioni di Guerra e di Pace. Per gli ex-soldati è facile trovare un’occupazione nelle alte cariche di qualsiasi ambito. Molti diventano direttori di scuole e hanno un’influenza diretta su come progettare le menti dei giovani studenti. Molti diventano dirigenti di gruppi finanziari o di grandi cooperative. Molti altri avviano attività private ed è facile che vincano appalti dallo Stato. Anche dopo aver lasciato l’esercito da molto tempo continuano a celebrare Israele come se fossero militari.
Per le donne di Israele la cultura militarista è il principale ostacolo al raggiungimento della pace. Fino a quando i nostri figli vedranno nel potere uno strumento necessario, non saranno in grado di aprire le proprie menti alla cultura della Pace e dell’accoglienza. Non sorprende il fatto che le donne siano state le prime a cominciare la lotta contro il militarismo in Israele. Le donne non traggono infatti alcun vantaggio nel servire il sistema militare. Non hanno mai raggiunto alte cariche nella gerarchia dell’esercito. Molte donne sono ancora costrette a lavorare per due anni in posizioni subordinate, come battere a macchina e preparare il caffè.  Fino a poco tempo fa, le molestie sessuali nell’esercito erano considerate come facenti parte della “norma comportamentale”. Era quasi impossibile protestare contro un ufficiale anche quando era stato commesso uno stupro. L’ufficiale accusato era sempre descritto come “eccellente comandante” e la vittima veniva espulsa dal reggimento senza possibilità di discussione e senza alcun riconoscimento delle sue sofferenze. Negli ultime tre anni, giovani uomini e donne hanno rifiutato di servire nelle Forze di Occupazione Israeliane. Essi vengono messi in prigione militare per mesi, in continuazione, ma nonostante ciò non cambiano la loro protesta. Noi, donne più adulte, speriamo che la nostra lotta contro il militarismo possa influenzare la scelta coraggiosa di questi giovani.
Democrazia in Israele
Israele si fa chiamare “l’unico Paese democratico del Medio Oriente” dichiarando che “La Pace sarà raggiunta solo quando gli avversari avranno adottato un sistema democratico”. Ma si può davvero parlare di democrazia quando si occupa la terra di un altro popolo? I principi fondamentali della democrazia non esistono nei territori occupati. Uno degli ufficiali di grado più elevato, che ha il controllo di un’ampia sezione dei Territori Occupati, ci ha chiesto di incontrarlo e ha affermato: “I palestinesi stanno sotto le leggi militari, e non hanno diritti”. Subito dopo ha corretto la sua affermazione estrema dicendo: “I palestinesi dovrebbero avere diritti umani". Ogni giorno siamo testimoni di innumerevoli casi in cui ai palestinesi non vengono dati neanche i diritti umani più basilari.
In Israele ci sono alcuni gruppi di pressione che si chiedono se sia giusto essere democratici “in un periodo così brutto”. Per i gruppi religiosi estremisti nella Democrazia di Israele esiste spesso una contraddizione rispetto alle loro leggi religiose. Questi gruppi tentano, e spesso riescono, a sottoporre la legge civile all’antica dottrina della Bibbia. Le donne ebree e musulmane sono le maggiori vittime di queste leggi obsolete che sono state “consegnate” al popolo di Israele 3.000 anni fa. Non siamo considerate uguali agli uomini. Una donna ebrea non può porre fine al matrimonio a meno che il marito non sia d’accordo a volere il divorzio. In Israele i matrimoni civili sono riconosciuti, ma i divorzi devono essere fatti nel tribunale religioso.  I gruppi femministi hanno lottato per anni per cambiare la situazione. Abbiamo avuto risultati positivi  quando al Tribunale della Famiglia è stata attribuita l’autorità di occuparsi della gestione del denaro e delle questioni riguardanti i figli. Ma, se il marito si rifiuta di accettare le disposizioni del Tribunale della Famiglia, può restringere tutti i vantaggi della donna dicendo: “non permetterò di concederle il divorzio”, portando avanti così la cultura del comportamento immorale.

La cultura della discriminazione e del comportamento immorale in Israele
Il comportamento immorale è, nella maggior parte dei casi, il risultato del militarismo e dello stile di vita non democratico. La maggior parte degli Israeliani non riesce a separare la paura degli attacchi terroristici dall’odio verso la popolazione palestinese. Molti israeliani giustificano la discriminazione della popolazione araba all’interno di Israele come una necessità  “mentre è in atto la guerra”. Con la scusa della diffidenza e dell’antipatia essi attuano una continua discriminazione verso la popolazione araba. Per le leggi israeliane, la popolazione araba che si trova in Israele è israeliana proprio come la popolazione  ebrea di Israele. Dovrebbero avere gli stessi diritti, la stessa distribuzione delle risorse e gli stessi vantaggi, ma semplicemente non li hanno. Nella scala della disoccupazione le città arabe sono ai livelli più alti e la prima città che conta una popolazione ebrea si trova solo al 23° posto. La discriminazione riguarda anche l’istruzione e le condizioni sanitarie. Nelle aree agricole la distribuzione dell’acqua dei villaggi arabi è la metà rispetto a quella dei villaggi ebrei che si trovano nelle vicinanze. I marciapiedi, i canali di scolo, i trasporti pubblici e i giardini pubblici non esistono nella maggior parte delle aree Arabe. Solo in una cosa possiamo essere considerati uguali: entrambi paghiamo le stesse tasse.  Noi, donne israeliane, musulmane, cristiane ed ebree, lavoriamo insieme per aumentare l’uguaglianza tra tutti i cittadini israeliani. Molte donne arabe stanno svolgendo come lavoro di tutti i giorni quello di insegnare e incoraggiare le altre donne mostrando loro come migliorare le proprie vite, anche sotto le restrizioni della tradizione e della discriminazione.
Le donne israeliane contro la cultura della guerra
Molti gruppi di attivisti di sinistra, israeliani e palestinesi, lavorano insieme per la Pace. Noi soffriamo delle ingiustizie che avvengono ogni giorno, delle continue uccisioni e della disperazione che si sta diffondendo in Palestina e in Israele. Cerchiamo di promuovere idee di condivisione e di associazione. Vogliamo porre l’accento sul fatto  che  ogni bambino palestinese è il figlio di una madre che lo ama proprio come noi amiamo i nostri figli, e solo in questo modo possiamo realmente impedire l’uccisione di bambini, da entrambe le parti.
Le azioni terroristiche hanno solo portato a reazioni terroristiche. Per costruire la fiducia dobbiamo lavorare in modo positivo aiutando, parlando, ascoltando, curando, costruendo, nutrendo...  In Israele esistono molte ONG di donne che operano per la pace. Questi gruppi conducono azioni differenti ma hanno gli stessi motivi e gli stessi obiettivi. Protestiamo tutti contro i risultati dell’occupazione israeliana. Ci sono numerosi gruppi di ONG nei quali uomini e donne lavorano fianco a fianco con metodi non violenti. Ciò nonostante la maggior parte delle ONG miste non riesce ad evitare il contatto fisico violento. A volte cercano addirittura di essere arrestati per avere l’attenzione della stampa. Le ONG di donne cercano di evitare la violenza in ogni caso. Noi crediamo che con la parola e con l’aiuto diretto si possano raggiungere risultati più efficaci che con le grida e le provocazioni.
Qui sotto indicherò il nome di tre organizzazioni di donne nelle quali sono impegnata, che operano tutte e tre secondo i principi della non-violenza: Bat-Shalom e il Jerusalem-link, che si occupa dei rapporti reciproci tra israeliani e palestinesi. Donne in Nero, che fa manifestazioni e chiede di fermare l’occupazione. Machsom (checkpoint) Watch, donne che controllano i posti di blocco dell’esercito per testimoniare e aiutare i palestinesi a cui vengono negati i diritti.
1. Il Jerusalem Link: Bat-Shalom e JCW
Bat Shalom è stata fondata nel 1988 ed è la più grande organizzazione femminista che  lavora in stretta collaborazione con le organizzazioni di donne palestinesi per raggiungere un accordo di pace fra Israele e i vicini arabi. Il Jerusalem Centre for Women (JCW) è un’organizzazione di donne palestinesi che ha sede nella parte est di Gerusalemme e che opera insieme a Bat Shalom.
Le due organizzazioni lavorano separatamente, svolgono attività differenti e hanno diverse gestioni, ma fanno parte entrambe di un’organizzazione comune, il Jerusalem Link.
Anche le donne di Bat Shalom hanno sempre operato nell’area locale. Stiamo cercando di cambiare l’opinione prevalente degli israeliani, per infondere la speranza e la convinzione che può esistere un’altra strada, che anche dall’altra parte ci sono degli esseri umani vulnerabili, e che insieme è possibile trovare una soluzione che possa dare lo spazio necessario per vivere ad entrambe le parti.
2. Donne  in Nero
Nel 1987, all’inizio della prima Intifada, alcune donne da tutta Israele si sono unite alle manifestazioni settimanali delle Donne in Nero. Noi vediamo nell’occupazione il male più grande che genera tutti i  singoli mali. Manifestiamo in silenzio, vestite di nero, e teniamo cartelli neri che dicono: “Stop all’occupazione”. Le reazioni dei tassisti, dei passanti e anche delle donne è talmente impressionante che siamo sicure che il nostro messaggio viene ascoltato, forte e chiaro, dalla popolazione a cui mira. Uomini e donne imprecano contro di noi e a volte fanno riferimento alla nostra sessualità: “Puttane degli arabi”, al nostro genere: “Tornatevene in cucina”, alla nostra apparenza fisica: “Siete così brutte che è anche difficile guardarvi” , o alla nostra famiglia: “Spero che i terroristi ammazzino i vostri figli”. Ma il più delle volte sentiamo delle imprecazioni nazionaliste: “Dovreste essere ammazzate, traditrici della patria”.
Durante le manifestazioni delle Donne in Nero, chiediamo anche allo stato di Israele di consentire ai lavoratori palestinesi di poter mantenere le loro famiglie, di consentire ai bambini palestinesi di andare a scuola regolarmente e di dare un’assistenza medica adeguata a donne e bambini. Ma la nostra richiesta principale è di fermare le punizioni collettive vendicative che non servono a contribuire alla sicurezza e aumentano soltanto l’insicurezza, la malattia, la fame e l’umiliazione cui sono sottoposti i palestinesi.
3. Machsom (Checkpoint) Watch
Nel 2000, all’inizio dell’Intifada di Al Aksa, è stata fondata una nuova organizzazione di donne, il Machsom-Watch. La nostra missione è di indagare e descrivere cosa succede ai posti di blocco, e di aiutare i palestinesi in difficoltà: quelli cui viene impedito di passare, quelli che sono trattenuti dalle forze israeliane  e quelli che hanno bisogno di appoggio morale e di comprensione. Donne di tutte le età sono entrate a far parte del Machsom-Watch. Ispezioniamo regolarmente i posti di blocco principali a sud e a nord di Gerusalemme così come i posti di blocco di tutta Israele.
Al giorno d’oggi i lavoratori palestinesi si trovano di fronte a una strada senza uscita. Se obbediscono alla legge israeliana e rimangono a casa, i loro figli rischiano di morire. Se invece cercano di entrare, illegalmente, nel territorio israeliano, con la speranza di trovare qualcuno che possa offrire loro un lavoro giornaliero, rischiano di essere colpiti. A volte un lavoratore che ha a carico tutta la famiglia riesce a lavorare un giorno al mese, ma molto spesso neanche questo. La polizia e l’esercito israeliani sono schierati per tutta Gerusalemme, e la loro presenza aumenta vicino ai posti di blocco. Il loro obiettivo è di fermare i palestinesi che non hanno il permesso di passare, con la scusa che potrebbe trattarsi di terroristi. All’inizio i soldati ai posti di blocco cercavano di farci allontanare dichiarando che ci trovavamo in una zona militare non autorizzata, o che ci avrebbero protetto dal grande pericolo di stare vicino alla popolazione palestinese, o ancora che interferivamo e li disturbavamo mentre erano al lavoro. Con il passare del tempo anche gli ufficiali dell’esercito si sono resi conto che la nostra presenza ai posti di blocco contribuiva ad abbassare il numero di aggressioni da entrambe le parti. Adesso abbiamo il permesso di fare il nostro lavoro. Abbiamo anche una lunga lista di numeri di telefono segreti della polizia e dell’esercito e chiamiamo gli alti comandanti ogniqualvolta il loro ordine immediato può aiutare. Se riusciamo ad aiutare anche una sola famiglia palestinese, ci sentiamo molto soddisfatte. Non dimentichiamo mai il quadro generale dell’occupazione, ma crediamo che ogni singolo atto contribuisca a creare una più ampia azione contro il male.
Conclusioni
In Israele e in Palestina si respira un’atmosfera di aggressione, di egoismo, di ristrettezza mentale e di non-creatività. Le persone sono ben preparate alle condizioni della guerra e non sono pronte ad accettare i cambiamenti necessari al raggiungimento della Pace e dell’Uguaglianza. Noi, donne di Israele e di Palestina, sentiamo che le autorità e la comunità ci proibiscono di educare i nostri figli alla Pace. Noi siamo qui per dichiarare che ci prendiamo la responsabilità di educare sia i nostri figli che i nostri vicini alla comprensione, alla condivisione, per cercare la Pace.
(da: L'ossimoro virtuoso, strategie di donne per la pace nel Mediterraneo, awmr italia, 2005)
trad. A.Donno


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Tra la guerra e la pace, quale uso della vita insegnare?


di Aicha Bouabaci


Per giustificare questo titolo, ricordiamo ciò che si diceva una volta in questa affascinante Africa, oggi regolarmente mutilata:  "solo l'uomo è peggiore dell'uomo e solo l'uomo è migliore dell'uomo". Dunque, l'uomo è capace del meglio e del peggio. Il peggio è ciò che arriva quando l'uomo teme per la sua sussistenza e la sua sopravvivenza; quando il suo domani è compromesso; quando ha paura.
Allora, non si cerca neppure di socchiudere la porta della ragione, ancora meno del meglio: il conflitto di interessi prevale ed il peggio avanza sui passi della necessità.
La guerra fa parte della natura dell'uomo: Hobbes sottolineava che "la condizione dell'uomo è una condizione di guerra di ciascuno contro ciascuno". Se oggi si ha la tendenza ad attribuire ad alcune parti del mondo piuttosto che ad altre i segni del bellicismo oltranzista e della barbarie, occorre ricordare ciò che ne diceva Eraclito nel VI° secolo a.C.:  "comune a tutti gli esseri, la guerra è la madre di tutte le cose". Come per esempio la segregazione uomini/donne poiché che fa la guerra se non l'uomo? Simone de Beauvoir riconosce, ne Il secondo sesso che "nell'umanità, la superiorità è accordata non al sesso che genera, ma a quello che uccide".
La guerra si circonda di rituali e si trova circondata da un’aureola di giustificativi spesso gloriosi senza che ci si interroghi sulla propria legittimità; i preparativi di una guerra somigliano a quelli di una festa; non si fornisce alcuna spesa; spese colossali per massicce distruzioni. L'uniforme del guerriero gli garantisce una legittimità. I guerrieri si serrano gomito a gomito. La guerra diventa un cemento di fronte all'immagine di un incontro di calcio; la comunità, nonostante le possibili perdite e le sofferenze presagite, resta unita dietro i suoi soldati. Anche quando esistono tensioni interne, la guerra stringe i legami della collettività; la guerra non è così pretesto per ritrovare la pace a casa propria attraverso l'esaltazione della sentimento nazionale?

Ho rivisto recentemente alla televisione la pellicola "Guerra e Pace" e le immagini del confronto tra l'esercito di Napoleone e quello della Russia non mancavano di bellezza; era regolata come una coreografia, in più c’è la solennità dell'atto. I battiti dei tamburi che danno ritmo ai passi dei combattenti, al loro vantaggio nelle loro uniformi, che avanzavano gli uni contro gli altri. I cuori erano sospesi. La presenza dei cavalli, scelti, che accordano all'insieme molta maestà.
Come un soldato lusingato di fare parte di questa parata?
Occorre anche ricordarsi le pellicole western della nostra gioventù, segnate da grandiose scene di confronto, in canyon selvaggi, tra gli Indiani ed i Cowboy e soldati americani, i primi, i visi selvaggi, dipinti con i colori violenti della guerra, che dominano sontuosamente, sui loro cavalli di razza, i loro avversari.
Scene segnate volta a volta dal timore e dall'esaltazione.
Seduzione della guerra... Il soldato è a sua volta trionfatore e vittima di una causa ben posta al di sopra di lui. È trascinato in questo turbinio di fuoco raggiunto da questa "epidemia psichica" che è la guerra. La furia e la sofferenza che oscurano le maschere dei combattenti, i grida di odio o di vittoria accompagnano i combattimenti fanno parte di un delirio collettivo. Come se l'uomo avesse bisogno, per affermarsi, di armarsi e dunque scoprire le delizie della violenza. Il generale de Gaulle, parlando delle armi,
aveva scritto: "hanno tirato a sé l'abnegazione del più mediocre degli uomini, dato l'onore al mascalzone, la dignità allo schiavo... hanno torturato ma anche foggiato il mondo." Hanno compiuto il meglio ed il peggio, strisciato nell'orrore o hanno sfavillato nella gloria.
Imbarazzata e splendida, la loro storia è quella degli uomini ".
E’ successo in effetti che i più mediocri degli uomini siano ricorsi a titoli gloriosi per condannare coloro che non condividevano il loro progetto di società, per fare tacere voci legittime: quelle
dell'intelligenza e dell'umanità pacifica.
Ma ascoltiamo Machiavelli che parla del principe: "Il principe... non può esercitare impunemente tutte le virtù perché l'interesse anche della sua conservazione lo costringe spesso a violare le leggi
dell'umanità, della carità e della religione."
La guerra vibra, in tutte le lingue, di forti sonorità. La guerra virile, forte della voce degli uomini.
Le armi sono anche giocattoli nelle mani dei piccoli ragazzi riempiti dell'orgoglio del soldato vittorioso. Chi è colui tra i piccoli dell’uomo che non ha ricercato il ruolo dell'eroe ed ha rifiutato quello della debole vittima? Essendo la vittima sinonimo di debolezza mentre l'uomo sogna soltanto la potenza. La potenza e la gloria: sono concetti che si combinano spontaneamente come se i dadi fossero tratti.  "Il riposo del guerriero" è ancora un'immagine da cogliere per penetrare nella psicologia dell'uomo attraverso i tempi. Il riposo che si assimila alle feste, al rilassamento ed al piacere in cui le donne hanno il loro posto. L'immagine della donna che idolatra la forza dell'uomo ed è sottomessa ai suoi capricci.

Desiderio di potenza

Fino dove andrà il desiderio di potenza dell'uomo? E quale è il vero posto della donna – alcune donne sono state guerriere anche nella storia di alcuni paesi e fino ad oggi donne fabbricano le loro armi in un'attività tradizionalmente e appassionatamente assunta da uomini; per la difesa del loro territorio - in questo mondo che rovescia la loro intera vita; poiché la donna è colei "che genera"; che è dunque madre; è anche figlia e sposa; ma la sua carne è certamente bruciata di più dalla morte che sorveglia e porta via il figlio che ha sostenuto e per il quale non vuole il destino che attende i soldati sul fronte. La guerra oggi tocca tutti i bambini: i bebé ; gli adolescenti, le ragazze e i ragazzi; che siano vittime dei fuochi della violenza o attori, come i bambini-soldati in Africa.
Tutte le donne sono consapevole dei disastri irrimediabili delle guerre. Le guerre uccidono; le donne sono sempre con i figli, vittime della guerra; gli stupri in primo luogo, in tutte le civiltà. La donna resta un bottino di guerra.
Jakob Kellenberger, presidente del CICR, sottolinea: "Le sfide che devono raccogliere le donne, e in modo particolare per coloro che sono prese nella tempesta dei conflitti armati sono immense... Le donne e le giovani donne costituiscono di solito la maggioranza della popolazione civile in tempo di guerra... come è il caso di tutti i civili presi nella trappola della guerra, le donne sono regolarmente
vittime di violenze fisiche, di spostamenti forzati, di cieche carneficine e di altre atrocità."
La guerra uccide ma la donna persiste a dare la vita.
È grazie anche alle donne che la vita continua nei periodi di conflitto.
Al CICR si ricorda che sono le donne, rimaste sole, che si prendono carico di bambini e persone anziane, vegliano sull'unità della famiglia e tentano di rispondere alle conseguenze disastrose della guerra.
Per tutte queste ragioni, la protezione delle donne nella guerra costituisce un punto importante del diritto umanitario internazionale.
Per la donna, la guerra? Una vecchia conoscenza; una nemica fedele.
Allora occorre scegliere: la guerra contro la vita?
Tuttavia, la guerra è la morte.
E la vita, è un bambino di più che sorride, che si sviluppa armoniosamente e che riprodurrà i gesti
della vita.
Perché avrà vissuto con una cultura della pace. In un ambiente senza violenza. Con uno spirito di fratellanza.

Il turno della pace

Poiché abbiamo definito la guerra, è ora il turno della pace cominciando a ricordare l'insegnamento di Maria Montessori, seguace incondizionata di una cultura di pace.
Maria Montessori in sette anni (1932-1937) ha pronunciato molte conferenze che mettono l'accento sui legami tra l'istruzione e la pace.
Maria Montessori mette in guardia contro la riduzione del concetto di pace: non deve essere assimilato alla cessazione della guerra. La pace non deve essere "il trionfo permanente ed ultimo della guerra."
 È anche l’ espediente emesso dal diritto umanitario i cui sforzi consistono nel introdurre un poco d'umanità nella guerra, l’estirpazione dei conflitti nel mondo non che sembra realistico.
La pace, precisa Maria Montessori, è un principio pratico di civilizzazione umana e d'organizzazione sociale che è fondato sulla natura stessa dell'uomo.
La pace non controlla l'uomo... essa la esalta. Non lo umilia... essa lo rende cosciente del suo potere sull'universo.
È questo principio che dovrebbe sottendere all'elaborazione di una scienza della pace e dell'istruzione degli uomini della pace.
Senza dimenticare che se l'uomo non è sviluppato normalmente questa conquista della terra rischia di realizzarsi con la violenza e nell’odio. Si sa quanto questa visione può constatarsi.
L'importante dunque è di tessere i fili della pace quando il bambino è ancora al seno. La donna, con la sua vicinanza, è la prima interessata da questa costruzione,
L'istruzione è la migliore arma, o piuttosto per evitare il lessico dei conflitti, il migliore alleato della pace.
Se l'uomo giunge con facilità ad insegnare alla guerra, saprebbe insegnare la pace? Non può, afferma Maria Montessori, senza l'aiuto del bambino, che possiede grandi capacità in materia di condotta di vita.
Maria Montessori, durante le sue conferenze, non ha trascurato di insistere sul fatto che il bambino costituisce, per l'umanità,una speranza ed una promessa e che è capace di svilupparsi e di provare che un'umanità migliore è possibile.
Oggi, si può vedere che bambini ed adolescenti, che lasciano pistole e mitra nel gancio d’arresto, brandiscono bandiere e banderuole portando il desiderio di pace, nelle vie con o senza gli adulti.
Nelle famiglie, nelle scuole quest'insegnamento deve continuare. Il bambino, nato senza pregiudizi, e affidato alle cure della sua madre, in primo luogo, in un contesto favorevole, è pronto nel tendere la mano nell’altra, per custodirla.
Nei parchi pubblici, negli asili, nelle scuole, spetta alle donne unire i loro bambini per insegnare loro non il confronto ma l’incontro verso l'altro, diverso, per conoscerlo, capirlo nella sua differenza, riconoscerlo e infine per apprezzarsi nella loro diversità.
È sempre confortante, negli istituti d'istruzione, constatare l'impegno di giovani incoraggiati in azioni di solidarietà con una popolazione straziata, in un quadro organizzato da associazioni organizzate come Handicap internazionale o l’UNICEF o in un quadro spontaneo, con altri giovani, e più spesso con l'accompagnamento di donne.
È importante che alle donne sia attribuito il ruolo, di demolitori di barriere, di traghettatrici, esse che sono spesso soffocate dai tabù e devastate dalle varie violenze.

Il consenso femminile mondiale: la guerra non è una soluzione e la pace è affare di tutti

Le manifestazioni, miste, attraverso il mondo intero, prima e durante la guerra in Iraq, lasciano presagire di quest'umanità migliore.
Sono le donne che si sono mostrate le più intraprendenti, le più immaginative: la pace, infatti, è una creazione. Poiché non è un prodotto innato, occorre tesserla secondo la sua sensibilità, con i colori del suo progetto, nel gruppo.
Donne si sono raccolte ovunque nel mondo a attraverso la marcia mondiale delle donne, il collettivo Donne in Nero (Israele, Palestina,Spagna, Bosnia e Italia) delle donne hanno detto no alla guerra; per alcune nude come la verità. Hanno investito tutti gli spazi per proclamare la loro libertà ed il loro rifiuto dei tabù.
Per gridare la loro determinazione contro la guerra, il razzismo, il fascismo e proclamare l'urgenza di regolamenti politici negoziati di tutti i conflitti che includano la presenza delle donne come il divieto totale della produzione e della vendita di armi come pure l'attuazione di politiche di disarmo, armi classiche o nucleari e biologiche.
Il 20 marzo, a Nuova Delhi donne di tutto il mondo si sono coalizzate contro la guerra in una marcia pacifica.
Ovunque, a Taiwan, le donne sono state illuminate dalle parole della vice presidente della repubblica, Annette Lu che ha garantito loro che devono fungere da "messaggere di pace ogni volta che si recano in Cina". Ha aggiunto: "Dovete fare passare messaggi di pace, d'amore e d'attenzione ai cinesi perché sappiano che l'isola non è ostile al continente e che facciano pressione sui loro dirigenti perché smantellino i missili puntati su 23 milioni di Taiwanesi".
Un dirigente uomo avrebbe indirizzato queste parole al suo popolo?
Mi ricordo ancora l'immagine del presidente francese Mittérand, apparso alla televisione, la vigilia della dichiarazione della guerra del Golfo, per annunciare freddamente, a strette labbra:"Adesso parleranno le armi!". Immagini di questo tipo si sono succedute dopo come sappiamo tutti. Diventate folli, incoscienti, ciniche, perverse, pericolose per il mondo intero.
Ho il bisogno - o il presentimento - di una donna che annunci un giorno come Annette Lu - forse anche come questa grande signora-resistente della Birmania - o più semplicemente una madre di famiglia:  "Adesso le armi taceranno".
E l'amore deve certamente essere una delle materie prime necessarie alla costruzione della pace, in una lingua o in un'altra, per un sesso o per l’altro ma certamente con più peso quando uomini e donne parlano con la stessa voce.

(da: L'ossimoro virtuoso, strategie di pace delle donne nel mediterraneo, Awmr Italia 2005, trad A. Donno)

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L'Algeria: Guerre, catastrofi ed una pace che tarda a venire


 

Aicha Bouabaci



La guerra si presenta ormai come l'ospite permanente del nostro universo; si è anche inserita nel vocabolario dei bambini, come se facesse parte integrante della panoplia autorizzata dei giochi, da consumare senza ritenuta. Chi dice guerra dice lotta armata tra gruppi sociali e specialmente tra Stati secondo la definizione dei dizionari; l’avremo sperimentata in ciascuna delle sue componenti in Algeria ed altrove.
La guerra, diceva Fénelon, autore francese, precursore  degli utopisti del XVIII° secolo è un "male che disonora il genere umano" e più vicino a noi il poeta Jacques Prévert ha esclamato in una poesia famosa: " Che idiozia la guerra! "
Ad ogni guerra che ha scosso il mondo e che persiste purtroppo, abbiamo potuto riscontrare la verità di queste sentenze:" Il disastro delle realtà umane quantificate dalle morti, i mutilati, i dispersi e le realtà materiali segnate dalle distruzioni, la desolazione dei luoghi, le carenze, la miseria e soprattutto l'emergenza umana: queste vedove, questi orfani, queste vittime di disordini mentali per i quali la sofferenza sostituirà la memoria e futuro. Quale è dunque la logica della guerra, di questa violenza progettata se non quella di mettere in pericolo l'integrità dell'uomo e violare i principi della ragione, quella anche che fa la differenza tra il genere umano e le altre specie ed è segno della sua superiorità naturale? Perché causare la guerra per invocare poi la pace?
 Nel momento in cui l'Algeria si risollevava da una guerra molto dura e molto lunga contro l'occupazione francese, vecchia di 132 anni, chi ha dunque deciso di inabissarla 26 anni dopo la sua indipendenza nel confronto fratricida invocando la religione allora che è lo stesso Islam che ha costituito il cemento della lotta armata contro la Francia? Gli Algerini dunque non si erano battuti per ritrovare la loro sovranità, la loro cultura e la loro dignità ridicolizzate? I Moudjahidine, questi combattenti per la libertà, non si lanciavano nella battaglia armandosi del sacro appello: "ALLAH AKBAR!" E che non si parla d'integralismo: si trattava dell'esplosione di una fede per combattere l'ingiustizia e conquistare la libertà alla quale ha diritto qualsiasi individuo, qualsiasi popolo.
Nel 1962 si sono contati i morti di ogni parte; la guerra è sempre una guerra sporca con la sua quota di vittime innocenti da entrambe le parti. Era l'Algeria che era stata attaccata nel 1830 ed era il popolo algerino che viveva sotto dominazione a partire da questa data – una dominazione regolarmente interrotta da tumulti in molte regioni del paese - ed era essa che era la più toccata. Ma l'euforia dell'indipendenza era più forte. Il lavoro di ricostruzione stava per cominciare e le esperienze per lo sviluppo del paese si susseguivano con i loro successi ed i loro fallimenti. Sono questi errori di condotta che hanno creato l’ineguaglianza ed hanno segnato la superiorità di una classe, minoritaria, sull'altra; la massa. E lo sa il popolo algerino avido di giustizia e d'uguaglianza. È su questi tratti del carattere che si sono appoggiati i detrattori dell'Algeria per reclutare i loro simpatizzanti.
L'integralismo non è algerino; è stato importato. Ci si ricorda gli anni prosperosi dell'arabo-islamismo e la cooperazione intensa con i paesi del Medio Oriente nel settore dell'istruzione; era stata decisa l'arabizzazione dell'insegnamento. Certamente studenti algerini negli anni 70 sono stati sedotti dalle teorie riportate dai fratelli musulmani.
Gli atti d'intolleranza, in particolare nei riguardi delle donne, sono apparsi negli anni 80; la corrente islamista si era sedimentata incoraggiata da membri molto conservatori del partito al potere. È di quest'epoca il Codice di famiglia molto reazionario.
Il seguito, lo si conosce: la mancanza di trasparenza della politica del regime in carica, la corruzione galoppante, le prospettive poco allegre in materia d'alloggio e d'occupazione, una gioventù imbavagliata, assetata di vita tanto importanti sono le sue frustrazioni: è la sommossa del 1988; il rinnovarsi della violenza ma anche la nascita nel sangue dei germi della democrazia: moltiplicazione di giornali e di parti politiche; È anche l'occasione per l’islamismo politico di risalire in superficie. Comincia il periodo nero dell'Algeria; il combattimento dell'integralismo che si allarga, le reclute, la folla di giovani senza speranza a chi si è promesso il benessere e la prosperità, qui, ed il Paradiso nell'altra vita.
La scuola è di nuovo presa in ostaggio da questi nuovi predicatori.
Dopo il divieto del partito islamico c’è la clandestinità e la formazione di gruppi armati le cui azioni sanguinarie mostrano bene che la ragione non ha più il suo posto, soltanto una pazzia collettiva si è installata fra questi combattenti di un nuovo tipo: i giovani  sono indottrinati, drogati; il loro aspetto fisico risponde all'insegnamento falsificato dell'Islam: l’Islam delle origini non corrisponde all'epoca dell'età della pietra: i musulmani contemporanei del Profeta Maometto sono istruiti poiché il Corano stesso non lancia, nell’iscrizione, l’ordine, all'indirizzo di ogni musulmano: "Leggi!"  "era l'ingiunzione dell'angelo Jabrail (Gabriele) alla quale il Profeta Maometto aveva risposto" io non sono di quelli che sanno leggere. "Ma l'ingiunzione era troppo forte ed è tutto un libro che il Profeta ha sentito imprimersi in lui." L'elogio della scienza è ovunque presente nel libro sacro, sotto la forma poetica che gli si conosce: "Se tutti gli alberi della terra fossero calamai, se tutti gli oceani fossero un inchiostro..."
È da Aicha, la giovane sposa del Profeta che celebriamo per il suo sapere, che le famiglie portavano i loro bambini, ragazzi e ragazze perché lei insegnasse loro le parole di Dio, dopo la morte del profeta.  Aveva adottato Omérah alla quale sono state insegnate la lettura e la scrittura e di cui aveva fatto la sua segretaria particolare. Il Califfo Omar esclamò dinanzi alla sapienza di questa ragazza: "La giovane donna al tuo fianco, ô Madre dei credenti, usa il calamaio con più libertà dei miei segretari che sono tuttavia calligrafi abili..." Non potrebbe -elle aiutarli a organizzare la versione definitiva del Santo Corano... ? "Quando si pensa all'estrema importanza di questa missione, non ci si può soltanto interrogare oggi sul posto infamante accordato alla donna, un millennio dopo, sull’ oscurantismo che si propaga. Non è certamente il tempo che bisogna accusare ma la direzione data al tempo: l'integralismo come quello che si esercita in Algeria, ha deciso un altro statuto per la donna ma certamente non quello che descrive il Libro Santo dove la donna merita rispetto.
È una questione di lettura e d'interpretazione. Il sacro comando "LEGGI!" "prende allora tutto il suo senso."
Invece dei calamai, gli integralisti si sono purtroppo armati di Kalachnikovs, di coltelli e di sciabole, killers in serie? Ricordare i massacri di famiglie intere, di tribù intere, gli stupri e gli sgozzamenti delle donne, servirebbe soltanto a rendere l'immagine del genere umano più odiosa e a disperare di un mondo in cui l'uomo ritroverebbe la sua ragione per vivere giustamente secondo il senso che avrà dato alla sua vita.
Ma vivere è uccidere? Cosa vogliono realmente quest'integralisti? Quale messaggio vogliono trasmettere attraverso la morte di queste centinaia di migliaia di innocenti? Che sono i più forti? Più forti del potere in carica? Per sostituirlo? Perché allora utilizzare di quest'intermediari? I civili?
Si è chiamata questa guerra, guerra civile, ma una guerra è una lotta tra due parti; i civili non hanno affrontato gli intégralisti: sono le vittime. E’ piuttosto come si è detto anche: una guerra contro i civili. Ma è ancora più complicato di quella poiché ultimamente ancora si ricominciano ad attaccare ed uccidere i soldati; giovani del contingente per la maggior parte; si ricomincia a mirare sui poliziotti.
L'analisi si complica di più ancora quando si sa che i gruppi islamici armati si fanno la guerra tra loro. L'attrazione del potere comporta certamente tutte le divisioni. Questi gruppi armati si fanno concorrenza in crimini mostruosi:
Come fermare la carneficina? Una guerra deve bene avere una fine e l'antidoto della guerra è proprio la pace. Ma quale cammino utilizzare per andare verso la pace? Senza dimenticare che la pace con degli assassini non è sempre auspicata dalle famiglie delle vittime in particolare. La pace, ma non a qualsiasi prezzo! Si è spesso sentito dire. Come porre fine allora a questa violenza incontrollata?Quale pace allora? Una pace a metà? Una pace intera?
La questione non è facile ma per risolverla occorre certamente essere in due.
E’ così  che contatti erano stati intessuti in occasione della presidenza Zeroual: Si era parlato di Rahma (la clemenza). Di fronte agli spargimenti di sangue, questo concetto è eminentemente umano. La formula del perdono come quella che si distribuisce allora delle feste dell' Aid o delle separazioni, nella cultura musulmana, lava qualsiasi dispetto, qualsiasi violenza.
Ma la situazione che ha portato a nuove elezioni presidenziali ed all’acquisizione di funzioni da parte del presidente attuale era certamente molto complicata.
Quest'ultimo ha instaurato la politica della concordia nazionale che doveva fare scendere dalla macchia gli intégralisti armati pentiti. Una somma era attribuita loro per il loro reinserimento civile. La non-violence, il perdono, il pentimento sono anche evocati nel corano.
Aicha, la sposa del Profeta riporta le dichiarazioni di quest'ultimo al momento della persecuzione dell'Islam da parte degli abitanti del Mecca:
"Siate come l'albero da frutto." Vi attaccano con pietre, rispondete con frutti ".
Ed ancora a seguito di un'aggressione dinanzi alla quale il Profeta è restato calmo, pur continuando la sua preghiera:
"Verrà il giorno in cui colui che ha sbagliato si morderà le dita..."
Quanto del pentimento, il Profeta ne parla così:"  "Dio perdona colui che si pente".
Il pentimento nel XX° secolo, e in Algeria?
I pentiti secondo i loro concittadini si mostrano arroganti, provocando così l'insoddisfazione della popolazione. Alcuni di loro sono anche ritornati alla macchia.
Sconcertante natura umana.
In questo periodo dei macelli sono annunciati regolarmente, in molti punti del paese, generalmente gli stessi.
Questa violenza non erode tuttavia la volontà di resistenza degli Algerini; continuano a vivere; senza grande entusiasmo, è vero, ma tutti fanno progetti, nonostante il disagio e la recessione, e non si fermano al peggio.
L'Algeria non è tuttavia serena. Un altro conflitto, di un altro tipo preoccupa gli Algerini da due anni. Tra il potere ed una regione: la Kabylie, questa regione berberofona di cui le rivendicazioni sulla lingua e la cultura berbera esistono da molto tempo. Là ancora, la violenza è stata all’appuntamento. Tra la mancanza di abilità e l’intransigenza, tra concessioni e determinazione, la difficoltà di dialogare.
Oggi sembra, dopo la liberazione dei prigionieri, che la situazione si migliori e che ci si incammini verso il dialogo.
Il dialogo, questo scambio, ricorda che ciascuno ha una voce, una presenza, un'esistenza, una posizione da difendere; ciascuna delle due parti dovrebbe potere intendere l'altra e non accontentarsi  del solo suono della propria voce. La ragione e l'intelligenza del cuore come quella dello spirito dovrebbero fare in modo che una soluzione sia trovata che non favorisca uno a scapito dell'altro: Ascoltare, parlare, dividere nell'interesse della totalità, tali mi sembrano essere gli elementi necessari alla risoluzione di un conflitto quando la volontà di risolverlo esiste ovviamente, da ogni parte.
L'Algeria, straziata da queste violenze politiche ma anche dalle catastrofi naturali che si sono succedute in modo ravvicinato e nelle quali le negligenze umane non sono assenti, meriterebbe certamente almeno una pausa: che il popolo si ascolti infine vivere, che possa infine, come si dice da noi " sentire le proprie ossa".
La vita senza violenza è alla fine possibile?

(trad. di Viviana Ingrosso)
Da: L'ossimoro virtuoso, strategie di donne per la pace nel Mediterraneo, awmr italia 2005.



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UN FIORE PER LE DONNE DI KABUL

di Ada Donno

(sta in; Pietregiornale dei Comuni del Salento, marzo 1998)

Su proposta del Parlamento europeo, l’8 marzo di quest’anno ha il volto invisibile delle donne afghane, alle quali ciascuna di noi può dedicare un fiore.

Anch’io raccolgo l’invito e dedico il mio fiore ad una donna di Kabul. Il suo nome era Massouma Asmaty. Dico “era” perché non so che cosa ne è stato di lei.

Nel 1989 Massouma era presidente del Consiglio nazionale delle donne afgane. L’avevo solo intravista al congresso mondiale delle donne a Mosca, due anni prima, e mi ero ripromessa di avvicinarla per parlare con lei, ma poi non ce ne fu l’occasione[1].

Ora stava facendo un giro in Europa per stabilire un contatto con noi donne europee, fiduciosa di rompere l’isolamento al quale le vicende del suo paese obbligavano lei e le sue compagne.

Da due anni le truppe sovietiche si erano ritirate dall’Afghanistan e il presidente Najibullah aveva avviato un piano difficile di riconciliazione nazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite, secondo gli accordi di Ginevra sottoscritti dalle diverse parti in guerra.

Ma non tutte le parti avevano deposto le armi, anzi la guerra si era rincrudita, alimentata dall’esterno. Interessi enormi, e non ideologici, si concentravano sull’Afghanistan: il Pakistan ne rivendicava pezzi a sud, le corporations americane tenevano d’occhio la via del petrolio e i giacimenti d’uranio.

Massouma spiegava tutto questo in un’intervista, accorata e ricca di dignità, a Pax et libertas, newsletter della Women’s international league for peace and freedom, in cui chiedeva a noi donne europee – e tramite noi ai governi dell’Europa occidentale - aiuto per fermare il massacro.

Ricordo che nella redazione di Iride – il foglio di Donne in lotta per la pace che pubblicavamo in quegli anni a Firenze[2], di cui ero responsabile - discutemmo animatamente se riportare l’intervista. C’erano ragioni a favore e ragioni contro, ma infine decidemmo, decisi, per il no.

Ora credo che, più che il nostro desiderio di verità, poté il freno del senso comune e del conformismo. Il mondo era diviso in due, allora, la pressione dell’opinione pubblica era fortissima su noi che eravamo dentro i confini dell’Impero d’Occidente e perfino a sinistra, nominando Kabul, era d’obbligo quantomeno il sarcasmo: l’Afghanistan era territorio “nemico” e noi, che già nell’associazionismo femminile portavamo l’etichetta di “filosovietiche” per via delle nostre relazioni costruttive con le donne dell’Est europeo, in quella occasione preferimmo evitare di farci ulteriore bersaglio.

Anche se Massouma era una donna colta e gentile, che credeva nel suo Afghanistan moderno, dove le donne andavano all’Università, erano funzionarie di Stato e venivano perfino elette in parlamento.

Quell’intervista non pubblicata è rimasta a lungo un rimorso pungente, negli anni seguenti, ogni volta che dall’Afghanistan giungevano le immagini atroci del conflitto interetnico scatenato dai signori della guerra Tagiki, Uzbeki e Pashtun.

E più che mai nel settembre ‘96, quando i Talibani fanatici e rozzi, allevati nelle retrovie pakistane coi tributi della potente compagnia petrolifera americana Unocal e della saudita Delta Oil, entrarono a Kabul, strapparono alla protezione internazionale Najibullah e suo fratello e li impiccarono al pilone di un distributore nella piazza di fronte alla sede dell’Onu. Poi frantumarono i televisori e vietarono la musica, imposero il lugubre burqa alle donne, ripristinarono il rito feroce della lapidazione delle adultere, frustarono a sangue le bambine che andavano a scuola e le donne che andavano al lavoro.

La rigida segregazione delle donne fu imposta dai “discepoli di Allah” e l’Afghanistan fece un salto indietro di qualche secolo.

I giornali liberal fecero qualche commento un po’ scandalizzato, sul maggiore quotidiano della sinistra italiana un rinomato inviato speciale all’Est scrisse assurde parole di auspicio al cambiamento, quelli di destra erano imbarazzati ma non troppo. In sostanza la "comunità internazionale" stette a guardare. In fin dei conti, i Talibani erano “antimoderni” ma non “anti-occidentali”. Non avevano combattuto con apprezzato accanimento l’Unione Sovietica? E tanto bastava.

Così l’Afghanistan ha continuato ad essere un paese devastato, pieno di profughi, di vedove e di orfani che non riescono neppure ad accedere agli aiuti umanitari.

I Talibani oggi controllano senza essere seriamente disturbati i due terzi del paese, compresa la grande vallata dell’Heland con le sue vaste piantagioni “clandestine” di papavero da oppio che, acquistato grezzo dai grandi trafficanti, viene spedito alle raffinerie “clandestine” pakistane dove diventa eroina per il narcomercato internazionale.

Io non so se Massouma Asmaty sia stata uccisa, o se viva nel suo paese o in esilio da qualche parte. So che non averle dato la parola quando ce la chiese, otto anni fa, fu un atto di povertà umana. E non accada mai più che io non abbia il coraggio di rispondere a un’altra donna che chiama.

 


[1] Una delegazione di donne afghane partecipò al Congresso mondiale delle donne che si tenne a Mosca nel luglio 1987.

[2] IRIDE, foglio periodico di informazione, opinione, collegamento delle donne in lotta per la pace, 1985/1992